sabato 24 gennaio 2009

Corto


Corto si chiama Renato. Renato Picchio, come il nonno, il padre di suo padre. Buonanima.
Morto di crepacuore ma in grazia di Dio, per quel figlio a cui non bastava il lucido magico per rifarle nuove, quand’era la festa, le scarpacce viziate dal piede, che aveva detto “mamma, me ne vado in Sudamerica” proprio mentre anche lei se ne andava, e più lontano.
Di modo che tra emigrati, morti prima e morti dopo quella casetta piccola piccola, con la finestra del bagnetto piccola piccola, con la cucina piccola piccola che s’affacciava su quei tralci piccoli piccoli di un’uva che mai nessuno l’aveva vista, s’era fatta grande, troppo grande, grande e vuota.
E Picchio era tornato per restare, con quel bambino nero a tutte l’ore, tutti i giorni, pure d’inverno, pure di domenica. Perciò Renato non ce lo volevano chiamare, nemmeno il padre, nemmeno la madre, la grassa e dura mamma, nera nera, che quella tenerezza della carne la chiamava Gordo.
Corto, appunto.
“Sudamerica … sì, ma dove?”
Importa? Con sudamericano avevi detto tutto: papà emigrante e mamma puttana.
Ma Corto non sapeva niente.
Sapeva seguire le lucertole assolate, guardarle e giurare che anche loro l’avevano guardato e che invece di scappare erano rimaste ferme perché lui non era come gli altri.
A lui i sassi gli venivano incontro, gli rotolavano tra i piedi per farsi cogliere e portare via, perché lì dove stavano anche gli altri non ci volevano più stare e guardavano Corto senza occhi, ma con uno sguardo … che lui non gli sapeva mai dire di no. Se li portava in tasca fino a quando capiva da qualcosa che volevano scendere, che quello era il posto, e che lo ringraziavano così tanto che si sarebbero sempre ricordati di lui. Qualcuno non voleva mai scendere, e lui se lo portava pure a casa, pure nel letto, pure a fare il bagno, e lo guardava trattenere il fiato per tutto il tempo sul fondo di ceramica della vasca.
Solo un amico lo poteva fare di stare tutto il tempo ad aspettarti con quell’aria tranquilla, rilassata, di uno che non ti mette fretta.
Quando mamma strillava di uscire Corto non usciva quasi mai. Bisognava che venisse a prenderlo e che se lo mettesse sulle spalle colossali, tutto fradicio e contento com’era di farle scivolare nel grembiule il suo sasso, quello femmina che con lui non si divertiva a giocare e che con mamma sarebbe stato bene.
Mamma teneva tutti i sassi femmina nel primo cassetto del comò, in mezzo alle pezze colorate che aveva portato dall’America. Corto andava a guardare e li trovava sempre a fare il bucato. In mezzo a tutti quei colori.
Il bucato.
Erano proprio sassi femmine.

4 commenti:

  1. oltre a non poter essere intestatario di un conto bancoposta..l'altro difetto, è che non puo progettare starnuti un sasso femmina

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  2. perché no? lo sapevo che dietro quei capelli quantomeno sospetti si nascondeva un sessista!

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  3. loqueli tu..che sei un derivato della costola d'un mocho vileda..si franca, capitola..tricologicamente si intende..

    i tuoi capelli hanno vita propria, riescono pure a leggere l'ultimo rigo della tabella oculistica..

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  4. zeta? effe? acca!? quella è un'acca?!
    infasil, sarai pure 5.5, ma a me sembri un tantinello più acido che basico!

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