giovedì 11 marzo 2010

Ma tu continua e perditi, mia vita


Daria è giovane e vagamente leporina, ha un attico –dice lei- da artista romana o trapiantata a Roma, un monoloculo istrionico che per partenogenesi si trasforma in camera e cucina o camera e toilette, mai in cucina e toilette –dice lei-.
L’ha affittato per dimostrare tante cose a tanti occhi increduli ancora oggi, tre anni e tredici chili dopo. Ci fumava con le amiche, c’ha portato qualche ragazzo, ci accatasta libri come ha visto fare in una foto bianca e nera di Luzi, il poeta, un poeta: impilati rigorosamente dal pavimento, con studiato disordine.
Ne raccoglie uno, distrattamente ciondolando il braccio a mo’ di gru, quando viene Il Marocco a fare l’amore –dice lei-: con la schiena nuda e fredda contro il busto tartarugato del Marocco fuma Diana blu e lascia cadere le cicche sul pavimento o nelle scarpe, mentre gli legge qualcosa di qualcuno con una voce arrochita che al Marocco fa sangue –dice lui-.

Nulla di ciò che accade e non ha volto
e nulla che precipiti puro, immune da traccia,
percettibile solo alla pietà
come te mi significa la morte.

Il letto è talmente basso che riescono a fare l’amore in mille modi acrobatici senza essere acrobati, pensa un po’.
Oggi Daria torna al paese, che suo padre deve morire a giorni: compra un biglietto con ritorno Lunedì mattina, perché per allora dovrebbe essere finito tutto e se così non dovesse essere amen, tanto lui non la riconosce più e a lei non importa niente da prima che capisse che quella barba ispida e quella risata stupida non erano più suo padre.
Al paese trova la solita puzza d’aria buona, la solita brava gente, la solita cameretta con la carta beige a rombi marroni e losanghe: sdraiata sulla sopracoperta a uncinetto sente l’umido delle risaie imperlare il pavimento e indicarle una strada lucida attraverso il corridoio buio e la waste land del dopopranzo.
«Papà?»
E le boccette della morfina si girano a intimarle “shhhhhh!”.
Dalla finestra accapannellata entrano colori catarifratti dal caleidoscopio della flebo, che danno a quella morte puteolente un’atmosfera fantasy e tediata, da epopea domenicale.
Daria la blasfema spalanca le imposte senza accompagnarle: il corpo di papà sussulta in risposta alla botta secca che fanno sul muro, e sembra quasi vivo; dal cortile dodici occhi pii si alzano a guardarla maledicendo, senza fermare la linea melodica delle bocche oranti.
Ad ogni ave Maria, lì sotto, risponde la raganella dei polmoni frullati nel pigiama buono, quello per l’ospedale, con un ritmo continuo che assopisce e rasserena: è Giugno, si sta già bene, devo comprare dei sandali aperti e sentire Mariella per Ostia –dice lei-.