sabato 19 dicembre 2009

Capri


Il vento umido le leccava addosso l’astrakan di Porta Portese, appiccicandoglielo ai lombi vagamente materni, e infilava sotto il bavero rialzato i suoi capelli fini e le parole grosse di qualcuno, da qualche parte, poco lontano.
Il piazzale degli autobus vantava tutte le nouances del grigio nel cemento, nelle pensiline, nel cielo , nell’astrakan di Porta Portese e nei capelli fini; a quell’ora, di sabato, non c’era un Venerdì che venisse a dividere l’aria di tempesta sull’isola pedonale: era la desolazione dell’apocalisse, della fine del mondo feriale.
«Dio te benedice tanta fortuna ammore»
«Non ho spicci»
“Ho bambino amalatto per favore aiuta me grasie”, aggiunge un cartoncino appuntato a mo’ di pass sul suo petto lungo.
Fa per prendersi una Capri, allunga il pacchetto all’altra senza nemmeno guardarla, senza spiegare, così; vede arrivare di tre quarti un fuoco amico che il vento inghiotte; allunga la mano per farsi passare l’accendino e se la sente strappare e squadernare.
«Dice di grande destino»
Legge l’anallfabeta
«Tu hai la mano bello»
«Ah sì?»
«Sì, linea di intelligenza molto lunga e profonda, e pure del successo»
«Mh»
«Non ci crede, eh?»
«Mah»
«Questa è linea della vita, vedi?»
«E che dice?»
«Che tu muori tra tanti anni»
«E quella?»
«Quella è linea dell' amore»
«Ah ... e quella che dice?»
«Che tu sei morta. Da tanti anni»

mercoledì 9 dicembre 2009

La spia


M’ha adocchiata un paio di volte, cercando la polpa delle labbra incastonate tra le rughe d’espressione che i miei trent’anni m’hanno regalato nonostante non li avessi invitati alla festa.
Poi non l’ho più vista, per diverso tempo, e ho continuato ad andare, ad andare, nella beata ignoranza cui le chitarre dei Clash m’avevano ricondotta: quasi fetale.
Nell’oscurità profonda che solo certi pomeriggi invernali riescono a raggiungere il tergicristalli del passeggero m’inteneriva il cuore, così paralizzato e invidioso dell’energica ritmicità dell’altro: lo guardava come una volta, diversi inverni fa, io guardavo elasticizzarsi le gambe della Bouchet.
La notizia più notevole del notiziario delle sei è che sono le sei.
Una speaker graffiante aggiunge i secondi.
Wow.
E non ho il buonsenso di togliermi da davanti gli occhi questa sigaretta, condannata alla verginità dalla pigrizia degli dei che non hanno fulmini per me, che non ho fulminanti per lei.
La testa del sedile non vuol parlare con me, finge di dormire, guarda fuori; io sto al gioco, mi mordo le unghie e le sputo dal finestrino, mentre scivoliamo sotto la pancia di una montagna: le luci ci folgorano a intervalli regolari, gialle ed esagerate come le rose di un amante geloso.
All’improvviso me ne accorgo: lei, la spia, mi fissa, e chissà da quanto, con quell’occhio da insonne infuocato di rimprovero; non voglio abbassare lo sguardo né giocare sporco, e chiudo un occhio anch’io, quello buono. Così tutta la nebbia di questo Dicembre m’entra nell’abitacolo, riduce l’equalizzatore a un filamento bluastro che si muove a spasmi, mentre la prospettiva colloca provvidenzialmente la luce rossa del cruscotto sulla punta della mia centos e io aspiro quell’ora di morte senza avidità.
La spia m’ha tradita, com’è nella sua natura, e abbandonata in quest’area di servizio: mi sdraio nella paura dell’imprevisto, col solito ribaltabile, con l’occhio puntato verso le mille costellazioni che la nicotina ha tracciato sul tettino.
Me le leggevi tu, te lo ricordi? Col dito seguivi le orbite dei miei occhi, premendo un po’ per farmi male, guardandomi cercarti subito dopo nello sfarfallio, venendomi incontro sulla porta della labbra.
A quest’ora ti starai già chiedendo dove sia, perché tardi a tornare, com’è che non c’è niente da mangiare, che me lo sono fatta a fare il cellulare se quando serve non lo prendo mai.
Una lunga pista buia si srotola ai miei piedi come il velo di una sposa sfortunata, vuol essere calpestata dai tuoi passi, ma cadenzati al ritmo di una volta.
E certo che trovarmi mi troverai, e torneremo a casa, e parleremo un poco, e lo racconteremo, e chissà quanti inverni inverneranno prima che tu ti accorga che sono rimasta qui.

lunedì 23 novembre 2009

Stabat mater


Il treno delle 20.15 mi mancava: nella mia collezione di partenze a quest’ora non ero mai partita.
I pendolari hanno lasciato piste d’odori acri e stanchi a tenergli il posto, e adesso mi dormono addosso i sonni ciondolanti dei pochi che hanno osato avventurarsi nella strada senza uscita del vagone: ad accettare l’inevitabile ci vuole un certo tipo di coraggio.
Porto una mano al cuore e non ci trovo che la stilo argento, quella che m’hanno regalato quei miei grandi amici di cui sono anni che non so più niente.
Lo scatto della punta che s’affaccia e si rivergogna abita la mia solitudine e le fa un po’ compagnia, intanto che la strada ci si mangia.
Passa un uomo stanco di passare.
Passa un quarto d’ora.
Passa la stazione di Perugia.
Passa un ragazzino fuori stagione, con delle scarpe in tela impolverate di polvere che qui non ce l’abbiamo e un broncio lungo più dei calzoncini.
La mano che lo guida è molle burro su cui si spalma il polsino scuro: di tela grossa e ruvida, severa. Di madre.
La madre lo sistema sul sedile di fronte al suo, e con manovre minime della testa lo soggioga e lo domina sicura: un piglio di badessa sulla vita di cuciniera .
Il ferro delle rotaie calamita le palpebre al suolo e lei lo guarda respirare come se da un momento all’altro l’aria che esce da quelle narici nere nere dovesse smetterla con questa pretesa della trasparenza.
E non succede.
Prima stazione . Lui si sveglia rumorosamente, dal di dentro; è il primo a sorprendersene, imbronciato, e fa per avvicinarsi a quel caldo corpo nero: cabbah del suo pellegrinaggio, meta obbligata e scelta, pilastro di una fede antica.
L’arco sopraccigliare dell’idolo, alzandosi, genera un’onda repulsiva così tempestosa e gelida da seccare le labbra tumide e l’argomento liquoroso delle lacrime. Stare dove si deve, senza discutere: anche questa è devozione.
Seconda stazione. Tutti lo guardano giocare con le ciocche unte dei suoi capelli azzurri, cedevoli come femminette alla ginnastica fantasia delle dita sbocconcellate. Si parla, si risponde, si insulta, si provoca, si sbrodola addosso parole grosse.
Stanotte dormirai da solo: questa la sentenza dell’idolo. Solo. La notte. Questa notte. Tutta la notte.
Le lampade superstiti del vagone sono incensieri che spandono chiarori ovattati addosso all’idolo, e le scosse ritmiche le fanno sbuffare di luce.
Terza stazione. Bologna.
Quarta stazione. La madre lo guarda cercare qualcosa a tentoni, con le labbra, nel sonno. Restituisce un paio di saluti riverenti ai coinquilini che abbandonano questa notte ferrata, lasciandoci a spartirla. Mi guarda senza guardarmi, la guardo senza guardarla, e fingo di dormire.
Il fischio del controllore scudiscia l’aria.
“Mamà”
Loguardamiguardaloagguantatirandolelabbra.
La destra scova nelle tasche enormi della tonaca un ciuccio avorio e coglie la messe di neri semi di preghiera e cristi crocefissi fioriti sulla catenella.
Dal naso in giù tutto promette tempesta e punizione, ma gli occhi le scappano ai lati, si allungano sulle tempie che s’accartocciano addosso alle bende del velo, bruciano di acqua salata.
E io non ho visto niente.

mercoledì 4 novembre 2009

Menu della casa II


Riso e patate.
La condensa che picchiava i vetri come una mosca gonfia d’estate, vorticando, ascendendo, ronzando rabbiosamente.
Erano i miei primi sei anni, ottobre di mille anni fa.
La cucina ingombra dei seni di nonna, dei suoi grembiuli, canovacci, stracci, presine, tovaglie e tovaglioli.
«Guarda i cartoni, a nonna»
«Che c’è scritto?»
«La principessa»
E non era vero.
C’era scritta un’altra frase, il titolo di quella puntata di cui non ricordo altro. Così ho scoperto che mentiva, che leggere sapeva leggere, sì, ma piano, sillabando un po’ e un po’ indovinando. Mentiva.
Non potevo capire: ho intuito. E amato con più tenerezza, troppa, quella bambina fuori taglia.
M’ha riso il cuore: sapevo.
Sapeva che sapevo: le ha riso il cuore.
Nonna, le parole accovacciate sui tuoi ginocchi, tenerezza e voglia di accudirti, di vestirti e metterti a dormire, di curarti. Nei tuoi molti anni e molti chili s’è accecata la ragazzina che eri e che sei ancora.
Che sei più ora, che ti guardo ridere per poco e farti litigiosa e canterina, venirmi incontro e arrivarmi al mento.

sabato 3 ottobre 2009

Di filo


Tu sei, e che tu sia non fa mistero, di filo.
Di fil di voce sei, tanto nascosto in te come lumaca che aspetta il temporale che la svegli, tanto svelta a cancellare l’impressione che sia per timidezza e a farti tentatore, soffiando dall’orecchio sull’incavo del collo.
Di fil di spada sei, sottile e scabro, ma soltanto per ferirmi svelto a sguainare la sciabola dei denti che danno l’affondo, sempre lo stesso.
Di fil di fumo sei, labile più del dovuto, rapido più del dovuto, pie’ veloce, acre in gola quando il tuo nome ristagna, scuro in volto quando ristagna il mio nome.
Di filo d’erba sei, flessile, giovane, tenero, solo. Pasci i miei pascoli, nascondi l’agguato, accogli lo stallo, inchini ai venti, affondi radici capaci di resistere e di non resistere, solletichi l’aria, succhi l’acqua dal fango.
Tu succhi l’acqua al fango

lunedì 7 settembre 2009

Vent'anni


Sei bella.
La tua bellezza mi dà le spalle, maleducate come solo a certe spalle si concede.
E sull’intonaco malva della camera la tua carne è una sfumatura di colore appena tiepido ma caldo, caldo, caldo. Calor di color di lontananza.
Potresti voltarti, vedermi, indossare uno sguardo di cotonella.
Invece è così nuda che voglio ricordare la tua cervice pensile, le bifore delle braccia, il piede che continui a inforchettare con la caviglia a sonagli. Sei tutta una linea, imprecisa ma continua, uno scarabocchio fatto tenendo il telefono tra l’orecchio e la spalla sinistra.
Ti canta in gola il sangue, ti ballano le tempie e la palpebra del destro. Ma solo a sera tarda.
Sono vent’anni che hai vent’anni, e ancora ridi con gli occhi, e intrecci settimane di vimini per riporre le parole del sabato e i lunghi silenzi domenicali, che ti sdrai accanto a un tenero senso di predestinazione.
Qualcosa in te non vuol calmarsi, e ti striscia sottopelle. Qualcosa, invece, non sa mutare.
Cambi profumo, ma l’odore è sempre quello, sempre lo stesso: il mio.

giovedì 20 agosto 2009

Termodinamica dell'elettrostatica


Patti non è nome da paese.
Sotto i ventimila abitanti Patti è inequivocabilmente un nome di sventura, una quinta di reggiseno , un magenta per le labbra, un odore di vaniglia lemon che resiste all’incenso del prete e a cui il prete, anche il prete, non resiste.
Patti è un nome che le altre non ti ci chiameranno mai, mai lo useranno per invitarti a uscire né tantomeno a visitarle a casa, dove la tua scia di vaniglia lemon rimanga a solleticargli i mariti.
Patti è un nome da mariti, che se lo passano con la lingua tra uno spritz e l’altro, e se lo mettono in tasca con gli spicci per giocarci con le dita intanto che aspettano da cena.
E quel 92% seta e 8% elastene delle tue spalle scivola, eccome, tra le dita, accelera lungo i palmi, si rincorre tra gli avanbracci per precipitare su viscosi petti. Patti. Con quell’orribile vizio della generosità. Con un imene per ogni occasione. Con un odore di vaniglia lemon da perderci il sonno.
E una madre che t’ha scudisciata con ogni nuova ruga, per quella polpa rosa che vedeva gonfiartisi addosso, per la pretesa assurda di poter ridere di niente e perché nei tuoi 36° vedeva fermentare qualcosa che ubriacava più e meglio del suo vino in cartone.
Tutto si trasforma. Dice. E nulla si crea. Pare. Ma che niente si distrugga, beh, ci vuole fede, non scienza, per crederci.

martedì 21 luglio 2009

Dazi ormonali


Bestemmiano.
Dio, la Madonna, Dio e la Madonna.
Bestemmie rudimentali, per scheggiare, manovrate da cuori non opponibili e buttate nel mucchio come spallate per farsi posto.
Bestemmie per farsi posto.
E risate che non fanno ridere, gracchianti, moleste e disperate, da ubriaco.
È un rito dozzinale ma efficace di cui sono ministri e fedeli, ma di quelli tiepidi.
Li guardo con occhi da gatta, da azalea, da tegola, da asiatica: occhi che fanno tutto uguale.
E sono tutti uguali: noiosi, sciatti e disperati.
L’elogio dei tredici anni. L’obbrobrio dei tredici anni. Troppo belli. Troppo brutti. Tutto vero. Tutto finto. Deliziosi. Repellenti.
La uncina dall’incavo delle cosce, tirandola a sedere su di sé.
Gli ride qualcosa all’orecchio, maliziosetta al borotalco.
Così fan tutti, tutto il giorno, tutti giorni.
Anche Linda. Nome dolce, pelo biondo, sguardo basso. Fino a ieri.
Oggi simula un’euforia da happy hour, misura a falcate di espadrillas il giardinetto, sui suoi due giri di perle fucsia cadono teste di noce di cocchi di mamma.
Una. Due. Trequattro. Cinque.
Si struscia sul muretto; un po’ per volta finirà la muta, lascerà la vecchia pelle molle a ricordarle qualcosa ma così, confusamente, come nemmeno fosse cosa sua.
E certo stasera, rientrando, sotto casa, si vergognerà.
Ma certo stasera, riuscendo, sotto casa, si vergognerà d’essersi vergognata.
Perché in amore e in guerra tutto è permesso. E questo non è amore.

domenica 14 giugno 2009

Menu della casa I


Pane e tonno.
Non volevo che essere maschio. Magari uomo no, ma maschio. In quei giorni di fare, di polvere, di faccende e dignità io non avevo un posto che fosse mio.
In tutti quei filari di campagna, nei punti neri che marchiavano l’ennesima adolescenza del viso giovane, sempre giovane della terra gialla a mezzogiorno, io non c’avevo che fare.
Niente fare niente stare.
Legge delle cose, legge onesta. Le donne avevano preparato gli attrezzi, preparato il pranzo che in mezzo alla polvere si chiama colazione, preparato anche gli uomini alla fatica e all’onore della fatica.
Per loro era tempo di tornare.
Aspettare.
La donna attende di natura. Nove mesi, vent’anni, quei cinque minuti che fanno la differenza tra cedere e capitolare.
Avrei dovuto andare anch’io.
Infilarmi nell’intercapedine tra un avvenimento e l’altro, pancia in dentro e bocca aperta.
«io rimango»
«dove?»
«qui»
«qui?! A che fare?»
«a lavorare»
«tu?»
«io»
«peserai trenta chili!»
«peserò quanto Massimo, ma lui lo fate stare»
«lasciala, se vuole stare … ma devi lavorare»
Sacchi da cinquanta svuotati quasi per metà. Trenta dolcissimi chili in media. Ad ogni viaggio. Dolcissimi. La vita che avrei conquistato, rubato se serviva, che m’aspettavo anche se non mi spettava. Almeno sulla carta.
La iuta segava la carne, anche sotto i vestiti, grezza e antica come la fatica.
Era la mia marcatura, era il segno. Che ho tenuto e coccolato per giorni: fidato e fermo sulla spalla sinistra come il pappagallo di un corsaro che io viziavo di ogni attenzione.
«COLAZIONE!»
Anche per me.
Tra le foglie boccheggianti dei filari il vento ci veniva a metter fretta, e mangiavamo in piedi, appesi gli uni agli altri.
Pane e tonno è l’ultima cena. Tradire il patto.
E io ho tradito.

giovedì 4 giugno 2009

Crucci e grucce


Oggi fa più caldo, l’aria è densa di tumori, mi tira la ferita del ginocchio.
Oggi devo andare a farmi nuova, lasciare che il movimento gonfi e raccolga la mia inconsistenza come il bastone lo zucchero filato. Devo camminare molto per distrarmi, perché in mezzo alle macchine, alla gente, piangere non posso. Mi lascerò accerchiare dalle cose che non vogliono cambiare.
Devo provare a cercare la voglia tra le grucce del negozio dietro casa. Ho bisogno che la mia nudità prenda un sapore di capriccio, perché di igienica prassi sono stufa. Appassita sullo stelo dei giorni incolonnati. Così nemica di me stessa,così stanca di dovermi frequentare.
Eppure staccarmi ancora non è tempo. Devo stare.
Tra le stoffe stampate cercherò qualcosa che mi mascheri, che strusci sulle braccia come un gatto, che faccia rumore camminando.
Perché di stare sola sono stanca. Ma ancora un poco sola devo stare.
Cercherò un commesso che mi guardi nello scollo, da conquistare sollevando questi occhi stracchi, insonnoliti e gonfi come guance per fischiare. Di un brivido ho bisogno, di una grassa allusione inelegante, di un desiderio maschio in erezione a cui appendere la serie degli eventi.
In me dovrei cercare ma in me sento soltanto la frescura umida e marcia dell’ombra troppo lunga e larga e fonda, di qualcosa che nemmeno ricordavo.

martedì 28 aprile 2009

Il male subito


Dovremmo augurare il male ai nostri amici, a quelli a cui teniamo, ai nostri cari.
Non lo si fa, e va bene, ma davvero credo che invece si dovrebbe.
Non solo il male, no, né soprattutto il male, no, nemmeno.
Quel tanto che basta ad esfoliare la superficie morta della morta superficie.
Perché il male subito sa darti la misura di te, le tue misure: petto fianchi e vita.
Soprattutto vita.
Il gusto di non lasciare fuori niente, di imbrattartici, di conservarne i brandelli tra i denti. Il senso di ogni cosa, il suo modo di distorcere e restituire la tua immagine.
Ti fa scoprire strade laterali, sensi unici e vicoli ciechi che non te li saresti mai sognati: utili a volte come scorciatoie, altre per tirare tardi e innamorarti della desolazione accartocciata dei gatti pigri e dei balconi vuoti.
Troppo male può intontire.
Troppo poco intontisce senza meno.
Perché ci ruba stimoli e difficoltà e soddisfazioni.
Domandarsi “perché io?” e non avere in tasca né uno scellino né un pensiero.
Doversi arrendere e trovare nella resa un ottimo compagno di bevute.
Imparare anche questo.
Dire “io” e sentire dove sbatte l’eco.
Diventare i propri migliori amici.
Scoprire il nostro punto di fusione.
Farsi grandi.

venerdì 3 aprile 2009

Il male fatto


C’è gente che per trovarsi s’è cercata in India. Tra i bonzi e gli elefanti, tra il Deccan e il Brahmaputra. E magari non ha risolto niente.
C’è l’altra soluzione, quella facile, evidente, frequentata.
Se cerchi te cerca in te. L’ha detto qualcun’altro, più di qualcuno in verità.
A me l’ha riferito la mia tiepida vita.
Elogio il male fatto, a cui nessuno si sforza di volere un po’ di bene.
Lo faccio perché so quello che dico. Non c’è provocazione. Tutto vero.
Elogio non vuol dire caldeggiare, spingere, invitare, persuadere. Non c’è bisogno. Tutti l’hanno fatto, tutti lo fanno, e spontaneamente.
Elogio vuol dire stacci attento, non lasciare indietro niente, non sottovalutarti: tu stai tessendo storia, la tua storia. Niente di meno.
Lesson one: the pen is on the table.
Lesson two: la vita non si sfugge.
Scegliere di fare il bene, scegliere di fare il male, scegliere di non scegliere. Questo è quanto.
Se hai attossicato, soffocato, lacerato, tradito, mentito, lusingato, simulato, a me gli occhi please, a me gli occhi.
Ecco il tuo peso specifico, la tua umaniorità.
Il disprezzo di sé: un egolitico di prima qualità. Posologia: al bisogno.
Doversi perdonare ci regala un precedente, espande la casistica, ci costringe a fare gli uomini. Anche prima di esserlo davvero.
Riempe le borse degli occhi di vestiti che non metteremo più.
E da quel viaggio notturno nel retrogusto amaro della propria perfettibilità si ritorna differenti. O non si torna.
Capaci di sapere ad ogni istante di quanta carne è fatta l’altrui vita, di provarne tenerezza, di aver voglia e pudore di ninnarla.
Hai preso attenuanti che una volta toccherà a te prestare a chi di turno.
Elogio il male fatto che c’insegna ad amare meglio gli altri, meno noi.

venerdì 20 marzo 2009

Dal tramonto all'alba

Iersera ho girato e rigirato intorno al mio asse mediano con la rassegnazione di un pollo di rosticceria.
Tu dormivi.
Ti ho guardato dormire, tutta schiena, come un muretto d’oratorio contro cui tirare pallonate intanto che il sole scende e qualcuno arriva.
La strada dei tuoi nei lasciava al guado una qualche possibilità di non bagnarsi sulla corrente calma ma continua dei peli che ti drizzava il mio respiro insistito addosso.
Tu dormivi.
Domani non arrivava mai. L’orologio scivolato sotto il letto mi costringeva a contare il tempo dalle pieghe che i miei seni accovacciati facevano sul lenzuolo. Li ho spogliati, lasciati respirare l’aria di una notte che tutto mi succedeva addosso.
Li ho visti guardare seri la tua schiena, tirarle una pallonata contro, guardarsi intorno se arrivasse qualcuno.
Li ho visti addormentarsi come figli cullati dal ritmo del mio cuore.
Mi sono tolta tutto. Ero viva, linfatica, fertile, ormonale e nuda proprio dietro le tue spalle da oratorio.
Da sola mi guardavo, ti guardavo, mi guardavo.
Tu dormivi.
Se t’avessi svegliato, così scandalosamente nuda e insolita, avresti brontolato o fatto l’amore, ma non avresti chiesto perché, né sorriso, né abitato la notte con me facendoti più vicino.
Questo pensiero mi succhiava il cervello dall’orecchio sinistro, come si fa con le lumache di mare, che puoi starci sopra le ore prima di cavarne qualcosa.
A un tratto era giorno. Io non t’amavo più.
Tu dormivi.

mercoledì 11 marzo 2009

Crescente


Come la luna sei, bianca e rotonda, e sorgi e cali sulla linea netta della spalliera in ferro del tuo letto.
Io sono quello che non sa dormire, oppure sa e non vuole, io sono solo.
Solo una scarpa sono, un’orma sola.
Passo come la pendola pesante. Passo a giorni alterni davanti alla tua porta socchiusa e rigogliosa di fotografie, poster e per sempre all’uniposca.
Tu albeggi.
Nei trenta gradi delle notti estive sembri tramontata su quel letto con approssimazione ben studiata.
E i tuoi capelli cercano qualcosa sotto il cuscino.
E tra la spalla e il collo ti dorme una penombra a mezze tinte.
Mondo prima del mondo.
Cosa viva.
Completa ma vocata a continuare, a continuare, a continuare sempre.
Pieno corpo piano di Pangea: sulle tue coste battono e ribattono azzurre onde azzurre di cotone, lente ma pervicaci, fatte per scavarti, per riconsiderarti nottetempo.
Correnti oscure mordono la vita, erodono centimetri di carne, che la maretta finge di scordare sulle tue cosce giovani, brunite, che non sai ancora accavallare e tieni divaricate quando stai seduta.
Il tempo del tuo tempo sta scadendo.
Comincia la deriva spensierata di te da te: ne caverai dorsali su cui prendere meglio il sole e il freddo, ne caverai zone di subduzione buone per fingere di aver dimenticato, ne caverai colonne d’Ercole e un modo solo tuo di immalinconirti e starci male.
Il tempo del tuo tempo sta scadendo.
Lo battono i miei passi in corridoio. Le lacrime che strozzano la gola della clessidra sul mio comodino.

giovedì 5 marzo 2009

Raccolta punti


Coi punti del dottore non ti ci danno i premi.
Continuava a guardare questa frase malinconicamente appesa all’uomo morto. Beato lui.
Una spanna e mezza neanche tra un’anca e l’altra. Poca strada da fare, ideale per amanti pigri e insonnoliti.
La voglia di risentirsi mozzare il fiato dal peso di un uomo grave, precipitato dalla cima della montagna di Maometto. Voglia di quelle cose che qualsiasi sala d’attesa terrebbe sulla soglia, nel portaombrelli.
Cose che stanno in tutte le cucine, tra il barattolo del sale e il pane di ieri.
Lo stetoscopio abbandonato, i guanti in lattice accartocciati nel bidone, lo strappo di carta del lettino: tutto molto meno sterile di ...
«Lei può andare»
«Andare?!»
«Sì. Ma torni presto»
«Quando?»
«Tre, quattro giorni, se non ha problemi»
«Posso restare altri cinque minuti? Mi sento così giù e le gambe …»
«È il sangue perso, e certo la paura … sebbene Lei abbia fatto … comunque può restare, può restare»
«Allora grazie»
«Dovere. E mi stia bene»
Le gambe ancora lorde di sangue colato, brune e lunghe e magre e molli, prive dell’incavo dorato della chiglia, rompighiaccio ossuti nel mare artico di quel letto a ore.
Il sangue sotto le bende come polvere sotto il tappeto.
E sotto il sangue il segno. E sotto il segno il male.
La lametta bic ha faticato per divaricare i lembi della carne dura e sana, per squadernare agli occhi attenti il miracolo della violazione e far risalire dalle profondità della ferita la risposta attesa e temuta sopra tutte.
“Qui puoi soffrire”.
Per fortuna.
Perché cominciava a credere e sospettare che lì dove il piacere non arrivava non sarebbe più arrivato niente. E dove si sospetta il niente anche il dolore sembra una gran consolazione.
Proiettato sull’intonaco verde acqua della parete scorreva il loop di quei pochi gesti, indecisi e decisivi. Da lì non si tornava indietro. Più.
Le ore aspettavano in fila, dietro la porta, pronte all’agguato.
Rendersene conto e decidere di andare fa tutt’uno. Ormai bisogna.
Si alza sul gomito sinistro, si abbassa la gonna, si mette una ciocca di capelli magri dietro l’orecchio, e nel farlo sente una ruvidezza che offende e umilia anche quell’istante di resa fiduciosa: fuori dall’estasi del dolore c’è ancora la sua vecchia barba bruna ad aspettarlo.

domenica 1 marzo 2009

Patti generazionali II


L’ombra dell’imposta sul pavimento rintocca le sei.
Sei e mezza massimo.
La badante lituana esce adesso, col suo fagotto di donna sotto braccio. Che racconta mondi così remoti, così falsificati e stagionati che tutto è diventato duro e secco, limpido nella sua semplicità. O semplificazione.
L’una allaccia il mento alla manina accartocciata dell’altra: e questa trema trema trema trema, e quello oscilla oscilla oscilla oscilla. Sempre sì le dice, sempre sì.
Nei panni ai lavatoi, nei pupi fasciati, nelle strade di terriccio e piedi scalzi cammina ancora l’una, ancora l’altra.
Capire non è tutto, capirsi invece sì.
Il mattonato mi restituisce l’odore di citronella e varicchina. Davanti allo specchio del salotto mille rughe si girano a guardarmi, mille righe raccontano una storia, sempre quella.
La cucina è perfetta: ordine, pulizia, penombra.
A quest’ora si comincia a respirare e l’estate strizza al giorno il succo. Ha macerato ore e ore e ore, pestate nel mortaio dalla pendola, ore assolate anche dietro i capannelli delle imposte, dietro occhi riluttanti e chiusi, che nelle grida dei bambini in strada hanno risentito mamma chiamare a cena.
Aspetto che si raffreddi il the. Aspetto che qualcuno bussi o suoni o chiami. Aspetto.
Nel lavandino due tazzine di caffè. Me le lascia sempre. È una delicatezza, una commovente delicatezza.
È una frase scritta con le cose: “nonna non penso che non ce la fai più. Guarda: ti lascio pure le tazzine da lavare!”.
Ma sono stanca. Ho passato le ultime tre ore a correrle dietro nel vialetto posteriore di casa, quella vecchia, quella dove è stata fino alla quarta elementare. A soffiarle sui ginocchi sbucciati a furia di ostinazione.
Ha ritirato anche i panni: i fili vuoti del balcone mandano spadate di riflessi nella bocca vuota del camino.
La lascio fare.
Fatica, impegno, piccole responsabilità domestiche alle quali appendere le risate domenicali: deve crescere. Con l’ultimo spicchio di pesca in bocca comincia a sparecchiare, a far scorrere l’acqua perché venga bollente, a cantare canzonette di una volta. Lo farei io. Vorrei. Potrei.
Ma le ruberei la scoperta di quanto e quale gusto abbia un peso. Portarlo. Doverlo portare.
Due giri di cordicella, il fiocco davanti: una ragazza.
E io non ci sarò quando l’annoderà sulla schiena e frenerà sul grembiule umido la corsa di una voce che la chiami mamma.

domenica 22 febbraio 2009

Conquista


Pare che Colombo nutrisse un interesse da botanico allo spettacolo delle nuove Indie. Fiumi, alberi, uomini: tutto visto sotto la specie dei Mirabilia.
Cortes, tutt’altra pasta d’uomo, le seppe conquistare. Non imparando mai la loro lingua, costringendole ad apprendere la sua, idiomatismi inclusi. Scambiando sorrisi di donna con denti di pettini di tartaruga.
C’ho creduto subito.
Qualcuno che ha strillato “terra! terra!” all’apparire dei tuoi occhi bassi dal vetro di un caffè di pendolari, qualcuno che ha baciato l’omero destro della tua spalla nuda e fiduciosa, qualcuno che ha insaccato la sua araldica nel taschino sdrucito dei tuoi jeans.
Che l’hai lasciato crescere in silenzio, che ti ci divertivi a sillabare il nome del suo nome, a stargli dietro come una papera curiosa e senza mamma.
Ti chiamerò “Virginia”, ti chiamerò “La Ventosa”, ti chiamerò “Amore”. Ma non davanti ai miei amici. Ti chiamerò quand’ho bisogno e quando non avrò un’idea migliore. Ti colonizzerò, ti farò dritta, fertile, generosa. Quegli angoli che c’hai, quel rigoglio pauroso, dove si entra e non si sa più uscire, buono solo per bestie e fuggitivi vedrai, ne saprò fare legna e carta, buona per tutte le stagioni e voglie di gente evoluta come noi.
Ti terrai stretta quelle spanne di te, riserve protette per lasciar crescere generose erbacce e nostalgia, saprai in un momento, e da lì per sempre, che non ritorna il tempo in cui correvi a gara col tuo sangue e innamoravi le piante e le struggevi con quel tuo modo stupido di ridere a naso in aria e quella voglia matta di rotolarti per smussare i fianchi.

mercoledì 18 febbraio 2009

Patti generazionali I


Quarantacinque minuti.
Per sparecchiare, avvolgere nella pellicola gli avanzi, lavare i piatti, asciugarli, riporli, pulire il lavandino, il gas, le mattonelle vicino al gas, spazzare, passare lo straccio, ripassare lo straccio, mettere il centrotavola e chiudere le imposte, lasciando quel tantino di spiraglio che serve a mandare via l’odore di cucinato.
Sto migliorando.
Sto davvero migliorando.
Anche se sono ancora lontana dai virtuosismi di chi c’ha l’arte di fare tutto e bene nella metà del tempo che ci metto io.
Come faceva lei. Come vorrebbe fare ancora, e farebbe, se le ginocchia larghe e la larga schiena non la tradissero.
La sua vecchiaia è allegra, vitale, colorata e vezzosa. Compra cuscini nuovi una volta al mese. Cuscini da arredamento, inutili, superflui. Belli.
E il gusto delle cose la ingrassa, la ingrassa tanto che più desidera vivere meno ci riesce.
Io sono la sua gamba tonica, il suo braccio rapido, la sua vita agile da ragazza senza figli.
Io sono manovalanza.
E orecchie per ascoltare storie color seppia, e bocca per riderle addosso. E acqua per lavarle le spalle e dita sottili e ferme per chiudere i gancetti del reggiseno.
E tempo da venire, per sperare di esserci ancora quando arriveranno: i confetti della laurea, quelli del matrimonio, i figli e i capricci dei figli e l’educazione dei figli e le canottiere dei figli. Di lana. La lana asciuga il sudore.
Io sono Il Patto.
Una donna.
Devo avverare in me una promessa, essere quello che altre sono state, fare la parte mia. Loro hanno dato.
Io no. Comincio adesso. Comincio qui, dal vim in polvere. Dal lavaggio separato per i bianchi. Dalle patate che si asciugano subito dopo lavate, sennò si fanno nere. Dai carciofi che si mettono a bagno con l’acqua e limone. Dalla camicia, che si stirano per prima cosa collo e polsini. Dalle finestre che le devi aprire pure col freddo perché dov’entra il sole non entra il dottore.
Finché le gambe mi si coprano di viticci rosa e rossi, nessuno voglia più rubarmi baci e io dimentichi perché arrossivo tanto.

venerdì 13 febbraio 2009

La scoperta dell'alfabeto


Quando precipitano così, sul mattonato del giardino, vuol dire che qualcuno l’ha fatta grossa.
Se continuano a picchiettare a lungo, è stato il figlio: che sarà pure piccolo, ma stupido non è, e l’ha capito che il miglior modo di farsi perdonare è darle il tempo di sbollire, di temere per lui e riintenerirsi. Di modo che quando lo trova nella rimessa degli attrezzi, sotto la macchina in garage o spalmato tra il muro e l’armadietto da pesca del padre non si ricorda più perché lo cercava, ma solo che non riusciva a trovarlo.
Se s’imbizzarriscono e poi tacciono è colpa del marito, quel povero marito magro magro, giallo giallo, lungo lungo, così impietosamente esposto a tutto per colpa delle ciglia color senza color.
Il silenzio che scavalca i loro bussi mi viene a disturbare dentro casa, mi tira per la giacca perché ascolti cose che vuole dire solo a me. Dalla cornice del mio modesto patio seguo la traccia degli spostamenti d’aria: di là, a pochi metri, si recita a soggetto.
Cala il sipario: si comincia.
Perché c’abbiamo lingue multiformi che ci leccano e vestono e spogliano. In ossequio al principio di riservatezza tengo gli occhi annodati al petto; non cerco poltronissime: conosco altre parole, altri discorsi.
E seguo altre parole, altri discorsi: fatti sostando e non sostando, fatti con la bocca d’Achille sul collo del piede.
Non esiste norma, solo performance: bisogna abituarsi, starci in mezzo, seguire prima il senso, poi il significato. Lingua da emigranti. Lingua da spie.
I talloni insistono a picchiare, a bussare a squillare a trascinare.
Incrocio intensità, frequenza e superficie: affondato.
Quante dichiarazioni d’amore e d’intenti, quanti amanti appassionati, quanti stanchi: i loro passi zittivano la bocca così abituata a significare, e raccontavano a me, soltanto a me, quello che negavano a sé stessi.
I tacchi delle donne, i tacchi dei signori, i tacchi in gomma dei bambini e dei bastoni tessono per i miei orecchi fraseggi disarmati, troppo onesti, involontari.
Il Morse prima del Morse: una lingua segreta, perché capisca solo chi deve.
Serve applicazione, serve guerra: e io c’ho passato dieci anni nella trincea scavata dall’assenza. Di lei.
Un buco nella terra per le sue ossa giovani.
Un buco nella branda per i miei giorni vuoti.
Per infilarceli quando spegnevano le luci, e avercelo pur’io qualcuno a cui far posto.
Nei corridoi i passi delle suore, una bava di voce per quelle trachee enormi.
Dalle ore di comoda punizione ho imparato la loro lingua.
La più struggente cantava triste tristi canzoni: Rita. La custode. Del suo segreto, che stringeva troppo forte tra le cocche degli scialli quando passava dietro le porte. Del suo dolore, che sciacquava nell’acqua morta delle giornate uguali: immerso riemergeva più opaco, e non c’era speranza che sbiancasse. Perché Ritina aveva ormai trent’anni, trent’anni trascorsi a scorrere per corridoi imbiancati a stucco, da un paio d’occhi all’altro di occhi come i suoi, indolenziti a furia di sgranarsi per ogni po’ di bene capitato. Agli altri.
Nei pomeriggi lunghi dell’estate ai suoi molti passi brevi, leggeri e vergognosi, pochi passi si venivano a mischiare: tutti a casa, chi alla propria chi all’altrui. Tre mesi per sperare in una vita che non sembrava arrivare mai.
A lei non la venivano a trovare. E non faceva gli uffici con le monache. E non poteva stare coi bambini.
Camminava.
Nella sospensione generale era quello il suo modo di passare.

venerdì 6 febbraio 2009

Settembre


Li ho visti scoppiare d’adolescenza.
Niente rimpianti, solo un gran sollievo: ho respirato troppo a fondo e l’aria ha occupato il posto della storia che avevo nascosto sotto il diaframma, e che è dovuta venire a galla.
Principio dei vasi comunicanti.
Quando li ho incrociati lo spettacolo delle manovre complicate per deviare gli occhi dalla mia fronte ai fianchi mi ha parlato con una lingua che non ricordavo di sapere: lui curioso della propria potenza, lei scettica sulla possibilità che il suo corpo avesse una forma diversa dalla propria da imparare.
Tutto li tradiva.
Così equivoci e mostruosi, non capivo se fossero troppo o troppo poco, se partecipassero di due nature o di nessuna.
Ho letto i geroglifici tracciati dai nervi tesi dietro quei sorrisi a molla e li ho tradotti con una soddisfazione molto poco cristiana: parlavano di tutte quelle sciocche ridicolezze, delle umilianti debolezze, delle incomprensibili colpe ormai eterne impastate di sebo che io non volevo sentirmi raccontare.
E inspiegabilmente ho rivisto la mia di faccia, impiastrata, sopravvissuta a tutti i tentativi di cancellarla a scalpellinate, che sapeva di esistere ma non riusciva a sentirselo e cercava negli occhi degli altri conferma e riposo.
Quella disgustosa smania di piacere caramellata di orgogli ben celati. Come adesso. Come adesso?!
Marcia indietro.
Attenta.
Calma.
L’abisso vi divide.
Loro gravitano nel vuoto, informi, convinti di esistere e incapaci di provarlo. Tu no, hai avuto il tuo fondo da toccare per sentirti viva e pesante. E quanto.
E intanto passano, mi sfiorano, scompaiono, ma li sento parlare. Forse di me. Certo di me. E l’idea di restare invischiata a mezz’aria in quelle loro vite ectoplasmatiche mi fa talmente schifo che vorrei scordarli o costringerli a scordarmi.
E invece rido e saluto la mia vecchia maestra.
Grazie a Dio so mentire.

lunedì 2 febbraio 2009

Diciotto


Dante ha la mamma stanca, la nonna zoppa e il compleanno a giorni.
Dante ha gli amici grandi, i capelli neri e la donna grassa.
Non grassa da esser brutta, grassa come una bambina che non ha la bici né amiche che le reggano la corda.
Quando la stringe a sé sente che cede, che scappa la sua carne rosa rosa, si nasconde dietro i fianchi dispettosa, aspetta che la vadano a cercare. Le mani di Dante ormai lo sanno. Circondano la vita, risalgono la schiena, ma solo fino al solco del reggiseno, in cui il dito inciampa e cade: oscillano scorrendone i gancetti e immaginando.
Diciott’anni. Gli mancano tre giorni.
Sta già facendo i quiz della patente. Anche le guide a dire il vero. Vanno con Gigi per campagne, verso sera, quando le guardie hanno altro da fare che stare a dire a tutta quella vita di non avere fretta. Che diventerà grande e vecchia anche se la smette di corrersi davanti.
Con Gigi di sbagliare si vergogna, e se un errore deve farlo, bene, che sia quello di dare troppo gas, di non frenare mai per tempo, mai, di non staccare la destra dal cambio, di tenere la canna accesa tra le lebbra. Gigi annuisce, approva e benedice. Racconta di quand’ha fatto lui l’esame, di come gliel’ha messo in culo a tutti, che non ha mai studiato la teoria, che quando gli altri truccavano le moto lui già s’era stancato di guidare.
Dante aspira il fumo. Stringe gli occhi. Stira le labbra troppo sottili per reggere il peso dei silenzi che l’altro gli ci appende.
Guida e basta.
E pensa che ormai ci siamo.
E pensa a lei.
Che non lo sa, ma ha promesso. La sera che ha fermato quelle mani che le cercavano addosso un’emozione, rovistando a caso e malamente, troppo forte, troppo piano, e lui “perché?” e lei “non voglio”, e lui “perché?” e lei “qui no”, e lui “perché?” e lei “ci vedono”, e lui “ma quando?” e lei “tra poco”, e lui “ma quando?” e lei “aprile”.
Aprile.
Mese di ogni dolcezza, mese indolente, mese di tiepidi sonni, di tiepidi abbracci, mese tenero e stupido mese che scava le guance ai ragazzi, le cosce alle donne.
Ad Aprile lui avrà la pratica. Lei paura. Di sé, di quelle braccia troppo spesse per abbracciare stretto, di quello stomaco troppo molle e comodo perché chi ci s’appoggia non riposi.
E non lo sa che a lui non sembra vero. Di poterla guardare e accarezzare sul vellutino di un ribaltabile, di vincere la sua calda resistenza e sprofondare tra quei seni grossi, pesanti, pieni e larghi, tra i quali seguire la pista del borotalco, di spingersi a strattoni su quel corpo soltanto immaginato, di conquistarlo brano a brano, a palmi, a morsi.
La porterà a fare l’amore al mare, la spoglierà muovendoglisi sopra al ritmo di risacca che gli arriva dai finestrini aperti. Sarà un uomo, non farà torti a quelle carni buone, saprà aspettare che lei gli si schiuda, per lei confezionarà un ricordo che non faccia mai male, mai pentire.

giovedì 29 gennaio 2009

Domenica è sempre domenica


Uomini.
Guardali, guardali, guardali …
Tre generazioni si avviano al tavolo della cucina. Sono partiti dal lontano Oriente.
La sala con la tele sta a Oriente.
La peroni, la partita, le bestemmie che si sono fumati ciccando per terra stanno a Oriente.
La carovana procede lungo il corridoio, masticando l’ultima patatina cric e croc, con un passo stracco, ma proprio stracco stracco, che pare strappato coi denti. Era l’ultimo? Miracolo!
Ne fanno un altro.
Un altro.
Un altro.
La ciabatta si abbatte al suolo con uno schiocco imperioso e uno strascico regale.
Che risorse che c’hanno, gli uomini.
Tutto il pomeriggio a dorso di divano, a stappare birrette e sgasare gassose, a dirsi “finocchione” e “puttaniere” con sdoppiamenti di personalità da croce verde.
Ma loro sono uomini.
Con la patente.
Guarda con che raffinata nonchalance l’angolo della camicia si è divincolato dalla costrizione della cinta, nota la sopraffina asimmetria di quel ciuffetto di capelli leccato contro la nuca tra le canne al vento del riporto poetico, osserva la patta spalancata sul boxer 50% acrilico, che s’è già riempito di pallette.
Donna, senza questi uomini tu non saresti niente.
Quindi sbrigati a scolare quella pasta (porta 5 minuti di cottura? Mamma la faceva in due e mezzo!), mettili di coccio questi piatti (mamma apparecchiava di coccio anche quand’eravamo tutti), smettila con le telenovele (mamma andava a Rosario) e falli mangiare.
Le loro pendule gibbosità sono state asciugate dalla privazione (pizzette e rustici li chiami “merenda”?): il minimo che tu possa fare per ripagarli della distrazione che ti dedicano è restituirli al lunedì coi tamburi tirati e una bustina di alcaseltzer nel taschino.

lunedì 26 gennaio 2009

Saluti da Venezia


E lui se n’è andato. Anche lui. Se n’è andato.
Senza battere ciglio, né la porta. Magari l’avesse fatto! Ci sarebbe ancora un’illusione da guardar sfiorire, duri quanto duri, nel vaso buono del salotto. Qualcosa a cui appendere il tempo.
Dai tuoi? Meglio di no. Bene gli vuoi bene, ma non basta: nella tua stanza c’hanno messo le canne da pesca di papà e i pomeriggi vuoti di mamma. La sua tavola da stiro con la fodera a limoni marinata all’appretto.
Da Carola no. Cioè sì, per carità, Carola è Carola e c’è sempre, ci sarà sempre, puoi contarci. Da vent’anni lo stesso parrucchiere, appuntamento per due, taglio e piega. Più qualche meches che tu non hai mai voluto provare. “Ma ti ringiovanisce”. Niente meches al tavolo 5.
Quale vita andare ad abitare adesso che nella tua c’è un vuoto tale che si sente l’eco dei borborigmi?
Boh.
Comunque lui non torna. S’è preso anche il filo interdentale e la sveglia dei Ramones. Le conchiglie a gondola, saluti da Venezia, l’ha lasciate ad invecchiarti. Nessun uomo vorrà fare l’amore con te dopo aver visto le conchiglie a gondola nell’ingresso.
A chi la dai la tua carne giovane, indurita dall’acquagym e dalle riunioni di condominio, a chi il tuo intimo in coordinato rosa antico, verde acqua, rosso cardinale, giallo croco?
Perché finché va bene va bene, e tradirsi non sembra un gran tradimento, e svendersi non sembra una gran remissione perché in fondo ce l’hai comunque un tuo guadagno, e si sa che per avere bisogna dare.
Ma dare hai dato, avuto poco, se sono le quattro e mezza del mattino e hai già finito di stirare.
E hai stirato anche le mutande.
Lui non ha nemmeno un’altra alla quale dare la colpa di tutto, delle serate afasiche sul puf, dei baci senza lingua, del maglioncino in lana per Natale. Tu sei allergica alla lana.
Se n’è andato, punto. È così.
Sul divano ti tocchi il femore sporgente e ti riaccendi una sigaretta che non ha il sapore che ricordavi. Niente ha il sapore che ricordavi. Per esempio la tua ultima solitudine: era piena di poster di Luke Perry. Il tuo ultimo orgasmo di eccitanti sensi di colpa.
Indice e pollice arrotolano una ciocca di capelli all’henné. Appena si fa giorno devi chiamare Carola, per fissare dal parrucchiere.
Taglio, piega e meches per due.

sabato 24 gennaio 2009

Corto


Corto si chiama Renato. Renato Picchio, come il nonno, il padre di suo padre. Buonanima.
Morto di crepacuore ma in grazia di Dio, per quel figlio a cui non bastava il lucido magico per rifarle nuove, quand’era la festa, le scarpacce viziate dal piede, che aveva detto “mamma, me ne vado in Sudamerica” proprio mentre anche lei se ne andava, e più lontano.
Di modo che tra emigrati, morti prima e morti dopo quella casetta piccola piccola, con la finestra del bagnetto piccola piccola, con la cucina piccola piccola che s’affacciava su quei tralci piccoli piccoli di un’uva che mai nessuno l’aveva vista, s’era fatta grande, troppo grande, grande e vuota.
E Picchio era tornato per restare, con quel bambino nero a tutte l’ore, tutti i giorni, pure d’inverno, pure di domenica. Perciò Renato non ce lo volevano chiamare, nemmeno il padre, nemmeno la madre, la grassa e dura mamma, nera nera, che quella tenerezza della carne la chiamava Gordo.
Corto, appunto.
“Sudamerica … sì, ma dove?”
Importa? Con sudamericano avevi detto tutto: papà emigrante e mamma puttana.
Ma Corto non sapeva niente.
Sapeva seguire le lucertole assolate, guardarle e giurare che anche loro l’avevano guardato e che invece di scappare erano rimaste ferme perché lui non era come gli altri.
A lui i sassi gli venivano incontro, gli rotolavano tra i piedi per farsi cogliere e portare via, perché lì dove stavano anche gli altri non ci volevano più stare e guardavano Corto senza occhi, ma con uno sguardo … che lui non gli sapeva mai dire di no. Se li portava in tasca fino a quando capiva da qualcosa che volevano scendere, che quello era il posto, e che lo ringraziavano così tanto che si sarebbero sempre ricordati di lui. Qualcuno non voleva mai scendere, e lui se lo portava pure a casa, pure nel letto, pure a fare il bagno, e lo guardava trattenere il fiato per tutto il tempo sul fondo di ceramica della vasca.
Solo un amico lo poteva fare di stare tutto il tempo ad aspettarti con quell’aria tranquilla, rilassata, di uno che non ti mette fretta.
Quando mamma strillava di uscire Corto non usciva quasi mai. Bisognava che venisse a prenderlo e che se lo mettesse sulle spalle colossali, tutto fradicio e contento com’era di farle scivolare nel grembiule il suo sasso, quello femmina che con lui non si divertiva a giocare e che con mamma sarebbe stato bene.
Mamma teneva tutti i sassi femmina nel primo cassetto del comò, in mezzo alle pezze colorate che aveva portato dall’America. Corto andava a guardare e li trovava sempre a fare il bucato. In mezzo a tutti quei colori.
Il bucato.
Erano proprio sassi femmine.

martedì 20 gennaio 2009

I muri


Mai fatto caso a quanto fossero sottili. Anche quelli dei villini a schiera. Anche i miei.
Stasera, a meno di una settimana dai trent’anni, l’ho scoperto.
Se la gente non fosse imperfetta non so davvero cosa vivrebbe a fare.
Chiudendomi la porta di casa alle spalle, mentre mamma m’urlava dietro non so cosa, l’ho scoperto. Un attimo c’era, l’attimo dopo non c’era più. Cioè sì, c’era, ma solo perché sapevo che ci doveva essere e ne ho saputo trovare la striscia sottilissima di bava.
La sua voce, dico.
Ho sbattuto la porta apposta, per protestare contro quella voce. Che mi criticava e mi ammoniva e mi ricordava ancora una volta che non sarò mai grande. Mai quanto lei. Resterà sempre la tartaruga che la mia lepragine non può raggiungere.
Mamma.
Che è infelice, e quanto, ed è anche colpa mia. Colpa? Mia poi? È lei che ha scelto di dedicare la sua vita solo ad amarmi, che ha fatto della sua esistenza un verbo transitivo senza complemento espresso. Un assoluto. Amore.
Voleva solo che fossi felice. Ma che lo sia senza di lei la fa impazzire. Perché soffre un dolore giusto, naturale, inappellabile, sperato.
Qualcuno ha detto che bisogna starci attenti ai desideri. Se poi s’avverano sono cazzi.
Io l’ho guardata per anni volere e disvolere la stessa cosa: alzarsi presto, farmi le merende e pagarmi i pastelli Giotto solo perché crescessi. Mettersi distesa sul mio letto, cantarmi le canzoni e farmi il bagno solo perché restassi la bambina rosa e promettente nella bolla di quell’attimo.
Io l’ho sempre saputo quanto e come la facevo soffrire. Ero io, era il modo in cui ero fatta, la mia normalità a sconvolgerla.
Povera mamma: così docile e nervosa, così dodecafonica.
Per essere equa avrei dovuto darle la mia vita. Saremmo state pari.
Ma per essere giusta dovevo vivere per me, solo per me. Perché è tutta qui la differenza: lei sta nella mia vita, io SONO la sua.
Mamma.
Domani sono sette anni che sei morta.

domenica 18 gennaio 2009

La conta


“ma dove sei stata? Non lo vedi che ore sono? Se lo sa tua nonna … “
“che devo sapere?”
“niente mamma, i soliti ritardi, la solita Miriam”
“e dove sei stata?”
“io lo so, io l’ho vista!”
“zitto tu!”
“dove l’hai vista?”
“all’alimentari”
“fino alle otto all’alimentari? A fare che?”
“ … “
“allora?”
E per chi in quella penombra non aveva potuto o saputo leggere i colori che andavano e venivano su quelle guance era finita lì. Perché il forno aveva di nuovo fatto bruciare tutto e i vapori neri della carne carbonizzata s’erano rovesciati fuori al galoppo, stordendo e costringendo tutti a dire la loro.
La famiglia.
Quella sera il poco appetito di Miriam, con la magra che c'era, era stato segretamente benedetto dagli altri. Che, come succede a chi si vede capitare tra capo e collo una fortuna insperata, si erano rifiutati di chiedersi perché.
“perché?”
“che domanda da femmina! Vuoi restare o no?”
“ma se ci scopre tua madre … “
“mia madre è al negozio che non si può muovere: papà è ubriaco”
“e se le serve qualcosa?”
“mi chiama”
“sì, ma io perché dovrei restare?”
“infatti non DEVI ... se vuoi … senti Miriam, io resto, tu fa quello che ti pare”
“ … ok. Che è che devo vedere?”
“guarda”
E da sotto la magliettina beige ereditata dal cugino era spuntato un cuore. Vedersi non si vedeva ma il Falchetto lo sentiva talmente contrarsi e spingere e scivolargli nella pancia che non ci poteva credere che invece lei …
“non vedo niente”
“ma come no, queste, guarda”
Trattenendo il fiato erano venute tutte a galla. Qualcuna sembrava che si vergognasse o che rabbrividisse di quell’aria oscura di scantinato e proibizione. Qualcuna invece ci stava così stretta e fiera nella pelle tirata che sembrava una quarantacinquenne alla prima uscita dopo il divorzio.
“le costole?! Mi dovevi far vedere le COSTOLE?!”
“perché? Non ti piacciono le costole?”
“sì ma non credo che nascondano un mistero!”
“lo dici tu … “
“sentiamo”
“quante ne hai?”
“non lo so”
“contatele. Basta che respiri a fondo e trattieni l’aria”
E in un istante s’era fatta donna. Con l’elastico verde tra i capelli sporchi, con i calzini bianchi risvoltati, con le gomme all’amarena in una tasca, Miriam non era più una bambina. Nemmeno lo sapeva che il Falchetto non aspettava affatto che finisse, nemmeno s’era accorta che la faccia gli si era fatta più lunga e rossa. I seni gonfi avevano riempito all’improvviso tutta la penombra.
“dodici”
“eh?”
“sono dodici. Per parte”
“non è possibile”
“perché?”
“perché io pure ce n’ho dodici per parte”
“e allora?”
“allora tu ce ne devi avere una in più”
“no”
“sì. L’ha detto il prete”
“e che ne sa il prete?”
“gliel’ha detto Dio”
“oddio … Però mi sembrano dodici”
“ricontale!”
“ricontale tu!”
“le mie?”
“no, le mie”
Da dietro le spalle Nicola la guardava. Sopra l’elastico dei pantaloni a righe iniziava subito la pelle, asciutta e bruna.
“aspetta che respiro. Vai”
La vita para, da ragazzina, magra.
Una.
Due.
Tre.
Quattro.
Cinque.
Sei.
Sette.
Otto.
Le coppe delle mani improvvisamente piene. Mani di ragazzino. Ma piene. Di un peso troppo leggero per quella massa.
Di quella che era la prima carne della sua vita. Che avrebbe ricordato sempre. Profumata di terriccio e resina. Incredibilmente immobile e dritta, in punta di piedi sui suoi palmi già caldi di un sudore che si asciugava sul cotone del reggiseno, man mano che i minuti passavano senza che nessuno si muovesse.

giovedì 15 gennaio 2009

C'era una volta un re


“Mi racconti una storia?”
“quale vuoi?”
“quale ti pare”
“quand’ero più piccola di te vivevo a Salonicco”
“ma non vivevi a Genova?”
“Miriam”
“eh?”
“la vuoi una storia?”
“sì”
“allora zitta”
“…”
“quand’ero più piccola di te vivevo a Salonicco, in una zona povera ma non lontana dal palazzo del re. Andavamo con le amiche a visitare il suo quartiere, che a tutte le ore del giorno era pieno di gente che pareva un formicaio. Alla mattina presto giravano i mercanti a dorso di mulo, coi rotoli di stoffa assicurati alle bestie o nei carretti, a ora di pranzo strillavano i banchetti pieni di dolci al miele e frittelle di succo di pesce, al primo pomeriggio i ragazzini giocavano nei patii e verso sera uscivano di scuola discepoli e maestri, per andare a cenare e passare la notte insieme in qualche casa”
“e le donne?”
“quali donne?”
“le donne! Dove stavano tutto il giorno?”
“dove dovevano stare? A casa”
“e tu perché stavi in giro?”
“perché ero ancora una bambina, e mia madre mandava piuttosto me che le mie sorelle grandi a fare commissioni. E nessuno faceva troppo caso a dove stessi”
“tua madre e le tue sorelle dovevano stare tutto il giorno a casa?”
“no, perché erano sfortunate e quindi dovevano andare a lavarsi i panni da sole alla fontana, e caricare i secchi d’acqua e così via. Ma le donne fortunate sì, stavano tutto il giorno dentro casa”
“a fare che?”
“se erano proprio fortunate, a fare niente”
“ah”
“vedi Miriam, per una donna la casa, la famiglia, i figli e il proprio marito sono tutto. E quando può godere tranquilla di questi beni, allora è una donna fortunata. Tu inizi a farti grandicella, e tra qualche anno ti accorgerai che è proprio così, e ti ricorderai di quello che diceva la tua povera nonna”
“e come si fa a diventare fortunate?”
“bisogna essere oneste, prudenti e modeste. E poi ci vuole anche una buona stella”
“e quelle sfortunate? Che fanno?”
“dipende. Se gl’è mancata solo la buona stella se la cavano comunque, e non sprecano i loro giorni. Se invece è tutto il resto che non c’è stato beh, a Salonicco si facevano etere”
“etere?”
“puttane”
“puttane?!”
“conserva la tua virtù Miriam e guarda alla vita di queste donne. Lo sai dove le si vedeva? Alla sera, all’imbrunire, uscivano furtive come ladri dalle loro case zuppe di umori, per accodarsi alle compagnie di maestri e allievi”
“per fare che?”
“ai banchetti offrivano sfacciatamente corpo e voce agli uomini”
“voce?”
“cantavano. E suonavano. E sedevano a tavola con gli uomini, e facevano quello che vedevano fare a loro, e fino all’alba li stavano a sentire parlare di scienza, Dio e poesia. Si facevano insegnare a leggere e scrivere, imparavano e recitavano versi, diventavano dotte. Concedevano tutto a chiunque”
“…”
“conserva la tua virtù Miriam”

mercoledì 14 gennaio 2009

Certe curve


Ma dove va? Dove va? Dove pensa di andare?
Conciata come una trapezista di mezza età, unta e bisunta di fondotinta e crema-corpo al cocco, mi farebbe pena o ridere se non fosse mia figlia.
Mia figlia poi, SUA figlia. Permalosa, litigiosa e bella come lui.
Adesso aspetta sul divano. Che mi passi immagino. Che gli dica “Monica, amore, vacci alla festa del tuo fidanzatino a farti succhiare quelle assurde labbra fucsia. A che ora viene a prenderti mamma?”
La luce blu del televisore le sfarfalla addosso, e basta che si faccia più chiara per vedere di quante e quali smozzicature è fatta la linea spessa dell’eyeliner.
Lei non crede alla sua età, solo al suo corpo. Che, sfacciato, ha approfittato del menarca per darle ogni giorno nuove ansie e soddisfazioni.
E questo è il risultato: tinta e ridicola come nell’ultima mascherata di carnevale. Solo che oggi non si lascerebbe spogliare e lavare come allora, non si lascerebbe addormentare come allora. Eppure ha sonno. Dal riflesso del vetro del termo camino vedo le palpebre piegarsi sotto il peso dell’ombretto a strati. Ormai è tardi, troppo tardi: sa che suo padre non arriverà in tempo per liberarla dal drago.
Eppure non si spoglia, e cerca ogni modo per dispiacermi.
Lascio il rubinetto della cucina aperto, per scivolare lungo il corridoio e guardarla quando si crede non vista. È bella. È già bella. Non come una bella bambina, ma come la donna che non ha ancora la capacità di immaginare che diventerà, la donna che racconterà ridendo le lacrime di questa sera.
I figli, a un certo punto, sono come la radio in macchina, quando guidi solo tra curve e controcurve che ostacolano la propagazione delle onde. Proprio nel mezzo di quella canzonetta che ti piace tanto cominciano a frusciare, a fischiare, e non c’è verso di farle funzionare. E tu stai lì, incerto tra provare a cercare altrove il segnale lavorando di cesello col pulsante “più e meno”, e ostinarti a restare su quella frequenza (nel caso torni a suonare, non si sa mai).
In ogni caso perdi qualcosa.
C’è pure chi c’ha il pugno magico, e con una botta ben assestata ha la meglio. Dura quello che dura, ma dà un certa impressione di controllo.
Io il pugno magico non ce l’ho avuto mai. E stasera ho scelto di illudermi che basti rifiutarsi di cambiare frequenza per risentire una canzone,la mia canzone.
Carina diventi tutti i giorni più carina ma in fondo resti sempre una bambina tu sembri fatta apposta per amar.

venerdì 9 gennaio 2009

Piazza Santi Martiri


Al martedì mattina c'è mercato.
Tra i quattro palazzoni di Piazza Santi Martiri, proprio nella pupilla di quell'occhiaccio sbarrato e fisso, alle sette si sente grattare. Per assicurare le tende parasole (parapioggia all'occorrenza)ogni banchetto raspa nel suo orto: l'asfalto vecchio s'arrende subito, e si volta e rivolta sotto il pungolo dei bastoni che sembra una gatta sotto la punta di un piede leggero.
Settimio non arriva mai per primo e mai per ultimo: cosa, se ci si pensa, estremamente sorprendente e difficile.
Terzo di quattro figli ha nel nome un piolo marcio: chi crede di trovarci appoggio sale pesante, e nove su dieci cade. Settimio, pronto allo scatto, afferra il braccio e tiene. E trattiene. Tutto il tempo necessario alla sua storia.
"Ma che sette fratelli, siamo quattro. Quattro maschi rognosi e zaccherosi"
"Ah, no, perché credevo ..."
"Eh, tutti credono. Mica che c'hai torto! Io pure se non conoscessi il dramma ... "
"Il dramma? Quale dramma?"
Preso.
Adesso non c'era che da stringere e tirare, inarcando schiena e sopracciglia.
Settimio era un settimino stentato, e un attimo dopo averlo saputo si vedevano diversamente quelle spalle strette strette, quel torace ridicolo, quell'aria da fantino disarcionato.
Raccontava della sua povera madre caduta dal letto in mezzo ai dolori e alle proprie acque che veniva voglia di prendere uno straccio e passarlo, del padre andato lontano lontano per campare la famiglia, della mammana tirchia che per tirarlo fuori aveva voluto lo scialle delle nozze, quello stampato a fiori, perché non c'era altro per pagare.
Quanti balli rubati a signorine ingenue e pietose signore nelle fiere d'estate, quando qualcuno che sapesse fare un po' di rumba o una romanza non mancava, e non mancava chi volesse stare ad ascoltare, a riascoltare ancora quella storia.
Ispida, corta e dura, come le sue due vecchie guance vuote.

El barrio



Nel cuore ognuno ha il suo.
Grazie Riccardo.

mercoledì 7 gennaio 2009

Ida


“L’ho sentita io!”
“E che hai sentito?”
“Ridere, ridere … e certi versi come … come … come miagolare”
“Non ci credo! Il marito è ancora caldo …”
“Te lo giuro su quest’immagine benedetta che mi regalò la povera zia Lorena prima di … e ce l’ho sempre sopra il cuore. Sulla buonanima di zia Lorena: quella c’ha l’amico. O gli amici”
“Pure?!”
“Pure. Ma per chi mi prendi: Ida c’ha una parola sola, e nessuno l’ha smentita mai in cinquant’anni che stò al mondo”
“Eppure a vederla … certo è bella, è conturbante, è pure civettuola con quelle vestine colorate, ma sembra tanto onesta, tanto perbene”
“E io mica dico che non sembra. Ah no, a sembrare sembra”
“E che ti devo dire, c’avrai ragione tu”
A Ida questo bastava. Sarà che la ragione è dei fessi, e Ida tanto furba non era. Sarà che ormai ne faceva un punto d’onore e un vezzo di portare la ragione sulla lingua, come gli uomini il fazzoletto nel taschino.
Sarà che a cinquant’anni suonati, sola al mondo come una buona intenzione, brutta e con la fama d’esser brutta a Ida poco altro restava. E passava le mattine a scopare l’ingresso, avanti e indietro, avanti e indietro, a lucidare i pomelli d’ottone del portone, destra e sinistra, destra e sinistra, a spiccare ragnatele nell’androne, su e giù, su e giù. Sempre a non più di un metro e mezzo dalla strada, sempre con un orecchio e un occhio in strada. E tutti i pomeriggi erano Messa. E tutte le serate ali di pollo.
Ma al barrio non ce n’era che la odiasse: qualcuno le tirava dietro un motto, quando passava raso raso i muri, qualcuna le strillava inviperita uscendo per scrollare la tovaglia, ma nessuno ce n’era che l’odiasse.
Nemmeno un po’ di odio tutto suo era riuscita a farsi dare Ida. Campava come campano le cose, lasciandosi spostare e malamente. Quando se ne sarebbe andata, solo allora sarebbe saltato all’occhio quell’alone più scuro sull’intonaco del barrio: lì stava appesa Ida.
C’è in ogni barrio qualcuno che non mette radici e non emigra, che c’ha un modo tutto suo di starci, né dritto né di sghembo. Qualcuno che non conta come gli altri. E gli altri sono come palazzoni, chi a più piani, chi con l’aria buona di cosa antica e chi con l’aria triste di cosa vecchia. Tutti con caldi cuori di cemento.
Ida no. Stava sola, col fiato sospeso, sui cornicioni delle vite altrui.

lunedì 5 gennaio 2009

Gelosie


Lancetta Piergiorgio di Lancetta Carlo era stato l'illustre signor nessuno del barrio.
Chi era? Da dove veniva? Che lavoro aveva fatto (perché che ora non ne facesse nessuno era chiaro a tutti)?
Mistero.
Di lui si sapeva solo che divideva l'appartamentino di via dei Campi Flegrei con lo stravecchio padre ("Lancetta Carlo signore", come lo si sentiva ripetere di quando in quando mentre annaffiava i vasi del balcone in vestaglia e cappello d'alpino) e la giovane, rosea, morbida, tiepida, cipriata Marianna.
Per il resto faceva una vita sufficientemente ritirata da scansare buona parte della lecita curiosità di un vicinato che le aveva provate tutte: domande lasciate cadere con un fare tremendamente distratto, tentati approcci all'edicola, bottoni attaccati mille volte e mille volte miseramente precipitati a terra, lunghi, estenuanti appostamenti dietro le gelosie socchiuse.
Niente.
E Lancetta non concedeva nemmeno la magra soddisfazione di mostrarsi spazientito.
"E quella?"
"Ma sarà la figlia!"
"Che figlia e figlia! Io mia figlia mica la guardo così!"
"Così come?"
"Così ... così!" E dagli a strabuzzare gli occhi e socchiudere bavosamente la bocca.
"Beato a lui!"
"Ce l'avessi io una pupa così per casa ... "
"Per forza che non esce mai"
"Io non vorrei sapere nemmeno se è notte o giorno!"
"Certo che tanta è tanta!"
"Mado' ... roba fina"
"Ma grossa dove serve"
"Eh"
"Eh"
"Miimmooo! MIIIIIMMMOOOOO! Sempre in chiacchiera, questo sai fare! Tanto agli affari tuoi c'hai chi ci pensa"
"Femmina malefica velenosa e legnosa ..."
"Come Mariannina, eh?!"
"Ancora a parlare di gonnelle? Ancora con Mariettina come si chiama? Buona l'apostola! Che servizio che gli fa a quel povero vecchio come voi! Che a settant'anni suonati deve stare appresso a quella vampira indiavolata!"
"Povero Lancetta!"
"Oremus"
"Ridete ridete, vedrete che fine che gli fa fare ... "
"Meglio un giorno da leone che cent'anni da pecora!"
"Tanto tu asino sei, rognoso e incarognito"
E così era stato.
Magari non era stata solo colpa di Mariannina (colpa poi, averci trent'anni e sentirseli caldi mica è colpa), magari la morte del padre l'aveva abbattuto più di quanto potesse sopportare, magari le gelate di quell'inverno, magari le malelingue che gli entravano in casa come spifferi ... tant'è. Lancetta Piergiorgio passò a miglior vita, lasciando una vedova inconsolabile e una casa improvvisamente vuota, talmente vuota che faceva l'eco.
Ma un'eco strano, un'eco che sembrava rispondere con note di basso a trilli di mezzosoprano.

giovedì 1 gennaio 2009

Chiamatemi Isreaele

"Mariannina fa la domenica".
L'aveva detto Israele, il figlio dell'Ebreo. Che l'aveva saputo dalla madre. Giel'aveva sentito sibilare una notte che lui dormiva, cioè origliava i genitori ad occhi chiusi.
L'Ebreo si produceva in una nota sola, bassa bassa, corta corta: "nooo" "nooo" "nooo".
Lei invece andava di virtuosisimi meglio che Paganini, con scale ascendenti vorticose e spiazzanti discese, a modulare un fraseggio che alla fine, a starci attenti, si reggeva però tutto sulla nota lunga dell'Ebreo.
"nooo"
"ma se t'ho visto io che svoltavi sotto l'archetto che finisce sotto casa sua"
"no-oo"
"ma io nonmifacciomicacoglionare eh, no no, eh no eh ..."
"nooo"
"e magari pensi che con due smancerie, due carezze, due sorrisini ... eh, caro mio, e mica qui si fa sempre domenica, mica ... mica sono Mariannina io"
"no no", stavolta meno baritonale e più sfiatato.
"hai capito Falché?"
"mica"
E Israele (che senza l'innalzamento dell'obbligo scolastico avrebbe continuato a chiamarsi Ebreo) buttava sul tavolo la sua teoria, tutto sommato logica e consequenziale:
"bei vestiti uguale: non va a servizio. Pista di borotalco dove cammina uguale: non lavora in campagna. Capelli sempre sciolti uguale: non è operaia. Mariannina fa la cuciniera"
"ma che!"
"non fate pranzo alla domenica?"
"eh"
"e allora torna"
"ma che torna! Tutti i giorni mi fanno passare a bottega e l'avessi vista una volta con la spesa fatta"
"ma se mia madre dice che Marianna e tuo padre sono come pane e pomodoro!"
"eh, dice male"
"e allora che stà a fare tutti i giorni da voi, che parla stretta stretta con tuo padre che pare chiedergli l'assoluzione?"
"mio padre darà l'assoluzione, ma per la benedizione passa il tuo ... o tua madre gli occhi per vedere i the e caffè che si prende (e con chi!) il suo di marito non li tiene?"
Il Falchetto c'aveva ragione. Se al barrio c'era una che a unzioni, aspersioni e benedicite non tremava quella era Mariannina Pagolini fu Lancetta.