venerdì 20 marzo 2009

Dal tramonto all'alba

Iersera ho girato e rigirato intorno al mio asse mediano con la rassegnazione di un pollo di rosticceria.
Tu dormivi.
Ti ho guardato dormire, tutta schiena, come un muretto d’oratorio contro cui tirare pallonate intanto che il sole scende e qualcuno arriva.
La strada dei tuoi nei lasciava al guado una qualche possibilità di non bagnarsi sulla corrente calma ma continua dei peli che ti drizzava il mio respiro insistito addosso.
Tu dormivi.
Domani non arrivava mai. L’orologio scivolato sotto il letto mi costringeva a contare il tempo dalle pieghe che i miei seni accovacciati facevano sul lenzuolo. Li ho spogliati, lasciati respirare l’aria di una notte che tutto mi succedeva addosso.
Li ho visti guardare seri la tua schiena, tirarle una pallonata contro, guardarsi intorno se arrivasse qualcuno.
Li ho visti addormentarsi come figli cullati dal ritmo del mio cuore.
Mi sono tolta tutto. Ero viva, linfatica, fertile, ormonale e nuda proprio dietro le tue spalle da oratorio.
Da sola mi guardavo, ti guardavo, mi guardavo.
Tu dormivi.
Se t’avessi svegliato, così scandalosamente nuda e insolita, avresti brontolato o fatto l’amore, ma non avresti chiesto perché, né sorriso, né abitato la notte con me facendoti più vicino.
Questo pensiero mi succhiava il cervello dall’orecchio sinistro, come si fa con le lumache di mare, che puoi starci sopra le ore prima di cavarne qualcosa.
A un tratto era giorno. Io non t’amavo più.
Tu dormivi.

mercoledì 11 marzo 2009

Crescente


Come la luna sei, bianca e rotonda, e sorgi e cali sulla linea netta della spalliera in ferro del tuo letto.
Io sono quello che non sa dormire, oppure sa e non vuole, io sono solo.
Solo una scarpa sono, un’orma sola.
Passo come la pendola pesante. Passo a giorni alterni davanti alla tua porta socchiusa e rigogliosa di fotografie, poster e per sempre all’uniposca.
Tu albeggi.
Nei trenta gradi delle notti estive sembri tramontata su quel letto con approssimazione ben studiata.
E i tuoi capelli cercano qualcosa sotto il cuscino.
E tra la spalla e il collo ti dorme una penombra a mezze tinte.
Mondo prima del mondo.
Cosa viva.
Completa ma vocata a continuare, a continuare, a continuare sempre.
Pieno corpo piano di Pangea: sulle tue coste battono e ribattono azzurre onde azzurre di cotone, lente ma pervicaci, fatte per scavarti, per riconsiderarti nottetempo.
Correnti oscure mordono la vita, erodono centimetri di carne, che la maretta finge di scordare sulle tue cosce giovani, brunite, che non sai ancora accavallare e tieni divaricate quando stai seduta.
Il tempo del tuo tempo sta scadendo.
Comincia la deriva spensierata di te da te: ne caverai dorsali su cui prendere meglio il sole e il freddo, ne caverai zone di subduzione buone per fingere di aver dimenticato, ne caverai colonne d’Ercole e un modo solo tuo di immalinconirti e starci male.
Il tempo del tuo tempo sta scadendo.
Lo battono i miei passi in corridoio. Le lacrime che strozzano la gola della clessidra sul mio comodino.

giovedì 5 marzo 2009

Raccolta punti


Coi punti del dottore non ti ci danno i premi.
Continuava a guardare questa frase malinconicamente appesa all’uomo morto. Beato lui.
Una spanna e mezza neanche tra un’anca e l’altra. Poca strada da fare, ideale per amanti pigri e insonnoliti.
La voglia di risentirsi mozzare il fiato dal peso di un uomo grave, precipitato dalla cima della montagna di Maometto. Voglia di quelle cose che qualsiasi sala d’attesa terrebbe sulla soglia, nel portaombrelli.
Cose che stanno in tutte le cucine, tra il barattolo del sale e il pane di ieri.
Lo stetoscopio abbandonato, i guanti in lattice accartocciati nel bidone, lo strappo di carta del lettino: tutto molto meno sterile di ...
«Lei può andare»
«Andare?!»
«Sì. Ma torni presto»
«Quando?»
«Tre, quattro giorni, se non ha problemi»
«Posso restare altri cinque minuti? Mi sento così giù e le gambe …»
«È il sangue perso, e certo la paura … sebbene Lei abbia fatto … comunque può restare, può restare»
«Allora grazie»
«Dovere. E mi stia bene»
Le gambe ancora lorde di sangue colato, brune e lunghe e magre e molli, prive dell’incavo dorato della chiglia, rompighiaccio ossuti nel mare artico di quel letto a ore.
Il sangue sotto le bende come polvere sotto il tappeto.
E sotto il sangue il segno. E sotto il segno il male.
La lametta bic ha faticato per divaricare i lembi della carne dura e sana, per squadernare agli occhi attenti il miracolo della violazione e far risalire dalle profondità della ferita la risposta attesa e temuta sopra tutte.
“Qui puoi soffrire”.
Per fortuna.
Perché cominciava a credere e sospettare che lì dove il piacere non arrivava non sarebbe più arrivato niente. E dove si sospetta il niente anche il dolore sembra una gran consolazione.
Proiettato sull’intonaco verde acqua della parete scorreva il loop di quei pochi gesti, indecisi e decisivi. Da lì non si tornava indietro. Più.
Le ore aspettavano in fila, dietro la porta, pronte all’agguato.
Rendersene conto e decidere di andare fa tutt’uno. Ormai bisogna.
Si alza sul gomito sinistro, si abbassa la gonna, si mette una ciocca di capelli magri dietro l’orecchio, e nel farlo sente una ruvidezza che offende e umilia anche quell’istante di resa fiduciosa: fuori dall’estasi del dolore c’è ancora la sua vecchia barba bruna ad aspettarlo.

domenica 1 marzo 2009

Patti generazionali II


L’ombra dell’imposta sul pavimento rintocca le sei.
Sei e mezza massimo.
La badante lituana esce adesso, col suo fagotto di donna sotto braccio. Che racconta mondi così remoti, così falsificati e stagionati che tutto è diventato duro e secco, limpido nella sua semplicità. O semplificazione.
L’una allaccia il mento alla manina accartocciata dell’altra: e questa trema trema trema trema, e quello oscilla oscilla oscilla oscilla. Sempre sì le dice, sempre sì.
Nei panni ai lavatoi, nei pupi fasciati, nelle strade di terriccio e piedi scalzi cammina ancora l’una, ancora l’altra.
Capire non è tutto, capirsi invece sì.
Il mattonato mi restituisce l’odore di citronella e varicchina. Davanti allo specchio del salotto mille rughe si girano a guardarmi, mille righe raccontano una storia, sempre quella.
La cucina è perfetta: ordine, pulizia, penombra.
A quest’ora si comincia a respirare e l’estate strizza al giorno il succo. Ha macerato ore e ore e ore, pestate nel mortaio dalla pendola, ore assolate anche dietro i capannelli delle imposte, dietro occhi riluttanti e chiusi, che nelle grida dei bambini in strada hanno risentito mamma chiamare a cena.
Aspetto che si raffreddi il the. Aspetto che qualcuno bussi o suoni o chiami. Aspetto.
Nel lavandino due tazzine di caffè. Me le lascia sempre. È una delicatezza, una commovente delicatezza.
È una frase scritta con le cose: “nonna non penso che non ce la fai più. Guarda: ti lascio pure le tazzine da lavare!”.
Ma sono stanca. Ho passato le ultime tre ore a correrle dietro nel vialetto posteriore di casa, quella vecchia, quella dove è stata fino alla quarta elementare. A soffiarle sui ginocchi sbucciati a furia di ostinazione.
Ha ritirato anche i panni: i fili vuoti del balcone mandano spadate di riflessi nella bocca vuota del camino.
La lascio fare.
Fatica, impegno, piccole responsabilità domestiche alle quali appendere le risate domenicali: deve crescere. Con l’ultimo spicchio di pesca in bocca comincia a sparecchiare, a far scorrere l’acqua perché venga bollente, a cantare canzonette di una volta. Lo farei io. Vorrei. Potrei.
Ma le ruberei la scoperta di quanto e quale gusto abbia un peso. Portarlo. Doverlo portare.
Due giri di cordicella, il fiocco davanti: una ragazza.
E io non ci sarò quando l’annoderà sulla schiena e frenerà sul grembiule umido la corsa di una voce che la chiami mamma.