sabato 27 novembre 2010

Blowin in the wild

Tre croci. Ho finito il tabacco. Non ho da fumare, per tutto il viaggio, che un' MS di Pietropaolo, la sua eredità spirituale. I sedili della Tipo mandano un afrore animale, da circo di paese; poggio la sacca e si alza un pulviscolo quasi fatato: sono le anime degli acari chiamate alla casa del padre.
Bolsena. Costantina ci faceva le vacanze da piccola. Costantina è una stronza.
San Lorenzo. Acquapendente. Centeno. La radio mi dà ragione: mai prendere l'autostrada. C'è una coda tra Roncobilaccio e Barberino del Mugello. C'è sempre una coda tra Roncobilaccio e Barberino del Mugello. Roncobilaccio e Barberino del Mugello sono ibridi da bestiario medievale, metà paesi e metà lucertola, che più gliela tagli la coda e più gli ricresce. Costantina aveva una coda: rossa, folta, alta, da volpe. Costantina aveva anche un cuore da volpe montato su un culo di gallina: ladra e magra, troppo charmante per dirlo in italiano.
Gallina. È l'ora dell' MS: il tabacco aromatizzato allo stabbiato te lo dice in faccia, ti avverte prima: bada che scendo eh, guarda che io vado giù eh, io vado allora eh, guarda che una volta giù poi io mi piazzo eh, poi non fare quello che non sa perché si sveglia con il fiato che sa di idroscalo di Ostia eh. Ok ok, Emmesse, basta che stai zitta: devo sentire la replica di Stampa e Regime.
Buonconvento. Mi tira la scapola destra, devo essermi stirato un muscolo. Dev'esser successo ieri, ieri sera, quando ha detto "Non sono incinta" e io ho tirato quel sospiro di sollievo come un giavellotto, a quindici metri. O forse no, forse è stato dopo, quando ha detto "Allora ti lascio però" e io l'ho dovuta picchiare e lei, per dispetto, è morta subito -che stronza- e l'ho dovuta rivestire, sollevare e mettere nel portabagagli: vera ladra, finta magra.
Monteroni d'Arbia. Ponte a Pressa. Isola d'Arbia. Ed è subito Siena.

giovedì 14 ottobre 2010

sono una ragazza intelligente


Ciao, sono una ragazza intelligente di Latina.
Seguo sempre la vostra trasmissione perché credo che voi capiate davvero noi ragazze di oggi che vivono a Latina.
Io non faccio per vantarmi ma credo che sono sempre stata sopra la media della mia età perché sono sviluppata anche prima delle mie coetanee e questo ti segna la tua sensibilità soprattutto in una città come Latina.
Volevo intervenire sulla discussione dell'importanza della prima volta perché purtroppo essendo sviluppata presto sono diventata un oggetto sessuale anche se avrei preferito rimanere nell'infanzia più a lungo a giocare con le barbie con mia cugina che purtroppo lei è brutta, diciamo, e non è stata un oggetto sessuale come me anche se per fortuna adesso ha trovato una ragazzo serio qui a Latina.
Vorrei dire alle ragazze intelligenti come me che non bisogna buttarsi via perché ognuna ha i suoi tempi che non sono quelli dei ragazzi che non hanno i nostri problemi perché loro tanto quello che fanno fanno bene e nessuno li infama se fanno le esperienze anzi tutti gli fanno i complimenti (almeno qui a Latina).
Quindi ragazze fate come me non buttatevi via perché è bello conservarsi la dignità per darla a un ragazzo che ha dimostrato di amarci e aspettarci anche a lungo anche davanti a tutta una città che si comporta diversamente, tipo Latina.
Mi raccomando :)

Pecorina '98.

giovedì 16 settembre 2010

Hanno detto di stare tranquilli 3/?


"Li hai chiamati?"
"Sì"
"Che gli hai detto?"
"Che la cercassero, che non può esser andata via volontariamente, non può ... non l'ha mai fatto e poi non c'è motivo.E ci chiamassero subito, subito appena ..."
"E loro?"
"Hanno detto di stare traquilli"

venerdì 6 agosto 2010

Hanno detto di stare tranquilli 2/?


Lui si chiamava Raimondo, abbreviazione di Edmondo, italianizzazione di Edmond; l'applicato dell'anagrafe si era fascistissimamente rifiutato di riportare così come gli veniva dettato quel nome sul fascistissimo registro della fascistissima città di T., dove una sacca di NAILON copriva alla meglio ancora nell'87 l'insegna BAR, sostituita a suo tempo con un fascistissimo TAVERNA tracciato da un'ignota mano incerta.
Adesso Raimondo era lì, forse non per lei ma comunque con lei. O quasi. Dall'altro capo del ponticello la guardava soffondersi delle nuances grigie dell'asfalto, del guard rail, delle terre petrose tutt'intorno e pensava che così finalmente adesso, adesso che sull'epidermide affiorava quella sua natura ferrosa che di minuto in minuto le si ossidava addosso, adesso sì che si sarebbe somigliata.
E schiuse la bocca per dirle qualcosa che servisse; e la tappò di corsa con un toscanello che gli rimase tra le labbra inerti come un uomo tra le gambe di una vergine e che dovette fare tutto da sé: farsi fumare poco a poco da quel po' d'aria che tirava e affidarle il proprio odore perché lo trascinasse di là, da lei.
Quella lo inspirò come una bestia.
Poi stanca di guardare chiuse gli occhi.
Quando li riaprì il sole era sparito, Raimondo era sparito e il senso del mondo insieme a lui; restava una pista di fumo tracciata nella notte: la fiutò, la seguì, tornò indietro, ripartì, si fermò, tornò indietro e si accovacciò nel niente.

mercoledì 4 agosto 2010

Hanno detto di stare tranquilli 1/?


Di tutte le cose che avrebbe potuto sopportare (e l'educazione cattolica, la diseducazione borghese, il perfezionamento anorressico l'avevano abituata a sopportare quasi tutto)questo no, questo proprio no.
Era un pomeriggio di Marzo, il cielo sembrava essersi staccato dai ganci e pendere a pochi metri da terra, opprimente: né caldo né freddo, né sereno né nuvolo, né buono né cattivo il tempo scorreva indifferente come un rigagnolo estivo a tratti ripido e rapido e a tratti fuso in una pozza disperata.
Ma tutto questo non importava e quindi può anche non essere mai successo.
Importava, invece, il fatto d'essere proprio lì, e il perché, e il per come.
Era un pomeriggio di Marzo, il cielo sembrava essersi staccato dai ganci e pendere a pochi metri da terra, curioso: la fissava con occhi vitrei e ciechi e ignoranti e indifferenti come quelli di un lattante o di un vecchissimo vecchio, che potevano essere guardati impunemente e impunemente ignorati.
Nella fodera interna della sua giacca da uomo teneva la lettera ceralaccata (un vezzo anacronistico) e siglata con l'anello da vergine, quello che sua zia Lena le aveva regalato per il menarca: una vecchia moneta portata dal fronte russo, dalla quale un Romanov si ostinava a non guardarla, montata su una fede d'oro forse troppo spessa e incisa con un motto che per anni le era suonato misterioso e incantatore, stregato e oscuramente minaccioso.
Mentre aspettava gli eventi su quello sperone di roccia se lo ripeteva con la stessa periodocità circolare con cui, toccando l'anello, ne compiva la circonferenza: "Alterius non sit qui suus esse potest, alterius non sit qui suus esse potest, alterius non sit qui suus esse potest".

venerdì 4 giugno 2010

La dura madre


Basta un muretto basso e sfatto, un vaso di fiori sconosciuti e rossi e una luce che cuocia di tre quarti per fare di me qualcuno che non conosco.
Squillano le sirene di Bagdad vent'anni dopo: nella mia periferia storica può trattarsi al massimo dell’allarme di un suv o di una soluzione sensazionalistica che qualche sebaceo ragazzo sta approntando per i prossimi mondiali.
Tutto mi bea, tutto mi persuade, e tra selve di rosmarino sento di esistere altrove e altrimenti, di avere tra le costole o sotto il femore o in una circonlocuzione del cervello un piede di porco per forzare le ganasce del buon senso e scoprire che sotto c’è ancora buon senso.
Seduta in mezzo al tempo che mi resta prima della prossima edizione del tg, stupisco; esercito le reni indolenzendole come vuole la disciplina della dura madre, nella quale anche ora, ora che indosso un pigiama di cotone, si impasta la mia vita.
La dura madre sa, la dura madre vuole.

giovedì 11 marzo 2010

Ma tu continua e perditi, mia vita


Daria è giovane e vagamente leporina, ha un attico –dice lei- da artista romana o trapiantata a Roma, un monoloculo istrionico che per partenogenesi si trasforma in camera e cucina o camera e toilette, mai in cucina e toilette –dice lei-.
L’ha affittato per dimostrare tante cose a tanti occhi increduli ancora oggi, tre anni e tredici chili dopo. Ci fumava con le amiche, c’ha portato qualche ragazzo, ci accatasta libri come ha visto fare in una foto bianca e nera di Luzi, il poeta, un poeta: impilati rigorosamente dal pavimento, con studiato disordine.
Ne raccoglie uno, distrattamente ciondolando il braccio a mo’ di gru, quando viene Il Marocco a fare l’amore –dice lei-: con la schiena nuda e fredda contro il busto tartarugato del Marocco fuma Diana blu e lascia cadere le cicche sul pavimento o nelle scarpe, mentre gli legge qualcosa di qualcuno con una voce arrochita che al Marocco fa sangue –dice lui-.

Nulla di ciò che accade e non ha volto
e nulla che precipiti puro, immune da traccia,
percettibile solo alla pietà
come te mi significa la morte.

Il letto è talmente basso che riescono a fare l’amore in mille modi acrobatici senza essere acrobati, pensa un po’.
Oggi Daria torna al paese, che suo padre deve morire a giorni: compra un biglietto con ritorno Lunedì mattina, perché per allora dovrebbe essere finito tutto e se così non dovesse essere amen, tanto lui non la riconosce più e a lei non importa niente da prima che capisse che quella barba ispida e quella risata stupida non erano più suo padre.
Al paese trova la solita puzza d’aria buona, la solita brava gente, la solita cameretta con la carta beige a rombi marroni e losanghe: sdraiata sulla sopracoperta a uncinetto sente l’umido delle risaie imperlare il pavimento e indicarle una strada lucida attraverso il corridoio buio e la waste land del dopopranzo.
«Papà?»
E le boccette della morfina si girano a intimarle “shhhhhh!”.
Dalla finestra accapannellata entrano colori catarifratti dal caleidoscopio della flebo, che danno a quella morte puteolente un’atmosfera fantasy e tediata, da epopea domenicale.
Daria la blasfema spalanca le imposte senza accompagnarle: il corpo di papà sussulta in risposta alla botta secca che fanno sul muro, e sembra quasi vivo; dal cortile dodici occhi pii si alzano a guardarla maledicendo, senza fermare la linea melodica delle bocche oranti.
Ad ogni ave Maria, lì sotto, risponde la raganella dei polmoni frullati nel pigiama buono, quello per l’ospedale, con un ritmo continuo che assopisce e rasserena: è Giugno, si sta già bene, devo comprare dei sandali aperti e sentire Mariella per Ostia –dice lei-.

martedì 9 febbraio 2010

Lava


Come una purissima morta nuotava nella vasca del bagno, occhi aperti e petto in fuori, giusto un pelo sotto il pelo dell’acqua.
Le iridi dilatate si riempivano della mia faccia da interni fin nell’estrema propaggine dell’ultimo dei loro alveoli neri: gliel’avevo visto fare non so quante volte. Anzi sì, lo so; voglio dire: posso saperlo. Due bagni a settimana, senza variazioni né eccezioni natalizie, per una media di cinquantasei settimane all’anno, che per tredici anni fa ... fa ... millequattrocentocinquantasei.
Millequattrocentocinquantasei simulazioni della morte ammantate di pratica igienica, ma tradite, nella loro inconfessabile realtà, dalla religiosità con cui gli atti e i tempi del cerimoniere si ripetevano: sulla maiolica rosa-salmone finlandese gli oli essenziali, i bagnoschiuma rilassanti, gli shampoo lucidanti, i balsami imbalsamanti restavano attenti,dignitosi, marziali e inutili come guardie svizzere.
Millequattrocentocinquantasei dimostrazioni che l’acqua scaverà pure la roccia, ma contro la ceramica non c’è storia. Né contro quel cuore di pomice, abraso a consumato a furia di sfregarsi contro i petti altrui per provare a lisciarli e assottigliarli tanto da romperne le resistenze ed entrare, penetrare, affondare contro natura. Contro la propria natura.
Il Rio C. scorre in qualche parte della Colombia, e nel suo letto cadaveri mutilati abbracciati a cuscini di cemento dormono un sonno così profondo che li riporta, prima o dopo, a galla; perché l’uomo è così, poroso: il suo corpo di spugna, il suo cuore di pietra. Pomice.

venerdì 15 gennaio 2010

Spostati


Se mi chiamassi John questo sarebbe un juke box a mezzo dollaro per volta, e quello un Jack qualsiasi, uno del mio quartiere, uno cresciuto come me a calci in culo e stelle e strisce e baby, sweet e fuck you mum.
Ma chiamarsi Gianni ammazza la questione sul nascere, porge l’altra guancia per principio, non ammette l’epica che nel fine settimana.
Giacomo mi allunga un’altro camparino liscio liscio, che mi faccia scivolare senza sforzi nella notte che oggi tarda ad arrivare: me lo vedo arrivare davanti tremulo, vile, un verginello al primo appuntamento con l’esperta depravazione della mia gola scartavetrata a forza di bestemmie e olio di gomito. Fossi nel più merdosissimo pub della più merdosissima square a quest’ora me lo vedrei venire incontro a falcate, altro che, e leccarmi la lingua quant’è lunga fino al campo dei miracoli che c’ho in corpo, giù in fondo, dove ho seppellito una manciata di notti e ho ritrovato alberi di anni rampicanti che mi si sono appiccicati attorno agli occhi e alla bocca.
E che non danno frutto.
Rutto.
Il buio delle sette non ha uguali, con quel neon che comincia a riscaldarsi e si impasta di polvere e tepore del tramezzo riscaldato, l’ultimo, quello che gli operai e il loro mondo onesto hanno schifato e lasciato apposta per me: carciofini e fondo del barile.
Mi concedo l’amarcord e ordino un coctail d’annata, alla faccia di queste facce pulite che cominciano a farmisi intorno e a solleticarmi dietro le orecchie con le loro piumate code dell’occhio: vogliono qualcosa, sanno come ottenerlo, lo otterranno. Ma non ancora: voglio far alzare un po’ di mance al barista, così che possa comprare una qualche stronzata colorata alla figlia e una stecca di sigarette come si deve.
Con la punta dei camperos spolpisco lo sgabello accanto al mio: Giacomo lo chiama “quello degli ospiti” e c’ha ragione, perché tra me, lui e la marmitta delle birre c’è una coesistenza di disgusto e bisogno reciproco, un moto di repulsione e riconoscenza quando ci ritroviamo insieme che ricordano veramente una famiglia.
«Spostati»
Dicono un paio di gazzelle al mio camperos; che ovviamente non ci sta e marca lo sgabello con una strusciata di fanghiglia ancora non rappresa che aveva tenuto nella risega del tacco per simili evenienze: la gazzella sinistra si pianta proprio sulla strisciata mentre l’altra s’appoggia all’acciaio specchiante del bancone.
«Funziona il juke box?»
«Abbastanza»
«Mi fai una vodka liscia?»
«Mh»
«Ce l’hai una sigaretta?»
«Non da donna»
«Tieni. Ti pago la vodka e una sigaretta da uomo. Spicciami il resto»
Aveva un giacchetto di pelle, corto in vita, borchiato e sceso su una spalla, i capelli raschiati sulla nuca, indefinibili, la voce di un giocattolo elettronico che abbia preso acqua. Nell’acquario di quel venerdì sera nuotava con traiettorie inusuali, con pochi colpi di pinna secchi e irregolari, contro corrente, visibilmente abituata a digiunare pur di non abboccare all’esca.
«Vuoi le patatine?»
«Hai musica metal?»
«Boh, vedi»
«C’è una copertina nera stracciata, ma non si legge niente»
«Io l’ho affittato come lo vedi»
Alla nota lunga iniziale ha sollevato la testa, preparandosi a pogare, ma il ricamo di sillabe incomprensibili le ha gelato il collo, irrigidendola in una posa plastica da scudisciata: seduta sullo sgabello, schiena inarcata, testa sollevata, braccia distese a toccare il bancone.
Ogni tanto si distinguevano uomini gridare basso “chirieleison” “chirieleison” e non ricevere risposta, e affogare sotto un’onda di violini e timpani e riaffiorare più stanchi e disperati, e sempre chiedere e sempre affogare.
Se n’è andata prima della fine, senza sigaretta, e ho guardato con tenerezza paterna la strisciata del mio fango salutarmi una volta ogni due passi.
Erano quasi le due: la serata poteva cominciare.