martedì 9 febbraio 2010

Lava


Come una purissima morta nuotava nella vasca del bagno, occhi aperti e petto in fuori, giusto un pelo sotto il pelo dell’acqua.
Le iridi dilatate si riempivano della mia faccia da interni fin nell’estrema propaggine dell’ultimo dei loro alveoli neri: gliel’avevo visto fare non so quante volte. Anzi sì, lo so; voglio dire: posso saperlo. Due bagni a settimana, senza variazioni né eccezioni natalizie, per una media di cinquantasei settimane all’anno, che per tredici anni fa ... fa ... millequattrocentocinquantasei.
Millequattrocentocinquantasei simulazioni della morte ammantate di pratica igienica, ma tradite, nella loro inconfessabile realtà, dalla religiosità con cui gli atti e i tempi del cerimoniere si ripetevano: sulla maiolica rosa-salmone finlandese gli oli essenziali, i bagnoschiuma rilassanti, gli shampoo lucidanti, i balsami imbalsamanti restavano attenti,dignitosi, marziali e inutili come guardie svizzere.
Millequattrocentocinquantasei dimostrazioni che l’acqua scaverà pure la roccia, ma contro la ceramica non c’è storia. Né contro quel cuore di pomice, abraso a consumato a furia di sfregarsi contro i petti altrui per provare a lisciarli e assottigliarli tanto da romperne le resistenze ed entrare, penetrare, affondare contro natura. Contro la propria natura.
Il Rio C. scorre in qualche parte della Colombia, e nel suo letto cadaveri mutilati abbracciati a cuscini di cemento dormono un sonno così profondo che li riporta, prima o dopo, a galla; perché l’uomo è così, poroso: il suo corpo di spugna, il suo cuore di pietra. Pomice.