venerdì 6 agosto 2010

Hanno detto di stare tranquilli 2/?


Lui si chiamava Raimondo, abbreviazione di Edmondo, italianizzazione di Edmond; l'applicato dell'anagrafe si era fascistissimamente rifiutato di riportare così come gli veniva dettato quel nome sul fascistissimo registro della fascistissima città di T., dove una sacca di NAILON copriva alla meglio ancora nell'87 l'insegna BAR, sostituita a suo tempo con un fascistissimo TAVERNA tracciato da un'ignota mano incerta.
Adesso Raimondo era lì, forse non per lei ma comunque con lei. O quasi. Dall'altro capo del ponticello la guardava soffondersi delle nuances grigie dell'asfalto, del guard rail, delle terre petrose tutt'intorno e pensava che così finalmente adesso, adesso che sull'epidermide affiorava quella sua natura ferrosa che di minuto in minuto le si ossidava addosso, adesso sì che si sarebbe somigliata.
E schiuse la bocca per dirle qualcosa che servisse; e la tappò di corsa con un toscanello che gli rimase tra le labbra inerti come un uomo tra le gambe di una vergine e che dovette fare tutto da sé: farsi fumare poco a poco da quel po' d'aria che tirava e affidarle il proprio odore perché lo trascinasse di là, da lei.
Quella lo inspirò come una bestia.
Poi stanca di guardare chiuse gli occhi.
Quando li riaprì il sole era sparito, Raimondo era sparito e il senso del mondo insieme a lui; restava una pista di fumo tracciata nella notte: la fiutò, la seguì, tornò indietro, ripartì, si fermò, tornò indietro e si accovacciò nel niente.

mercoledì 4 agosto 2010

Hanno detto di stare tranquilli 1/?


Di tutte le cose che avrebbe potuto sopportare (e l'educazione cattolica, la diseducazione borghese, il perfezionamento anorressico l'avevano abituata a sopportare quasi tutto)questo no, questo proprio no.
Era un pomeriggio di Marzo, il cielo sembrava essersi staccato dai ganci e pendere a pochi metri da terra, opprimente: né caldo né freddo, né sereno né nuvolo, né buono né cattivo il tempo scorreva indifferente come un rigagnolo estivo a tratti ripido e rapido e a tratti fuso in una pozza disperata.
Ma tutto questo non importava e quindi può anche non essere mai successo.
Importava, invece, il fatto d'essere proprio lì, e il perché, e il per come.
Era un pomeriggio di Marzo, il cielo sembrava essersi staccato dai ganci e pendere a pochi metri da terra, curioso: la fissava con occhi vitrei e ciechi e ignoranti e indifferenti come quelli di un lattante o di un vecchissimo vecchio, che potevano essere guardati impunemente e impunemente ignorati.
Nella fodera interna della sua giacca da uomo teneva la lettera ceralaccata (un vezzo anacronistico) e siglata con l'anello da vergine, quello che sua zia Lena le aveva regalato per il menarca: una vecchia moneta portata dal fronte russo, dalla quale un Romanov si ostinava a non guardarla, montata su una fede d'oro forse troppo spessa e incisa con un motto che per anni le era suonato misterioso e incantatore, stregato e oscuramente minaccioso.
Mentre aspettava gli eventi su quello sperone di roccia se lo ripeteva con la stessa periodocità circolare con cui, toccando l'anello, ne compiva la circonferenza: "Alterius non sit qui suus esse potest, alterius non sit qui suus esse potest, alterius non sit qui suus esse potest".