giovedì 29 gennaio 2009

Domenica è sempre domenica


Uomini.
Guardali, guardali, guardali …
Tre generazioni si avviano al tavolo della cucina. Sono partiti dal lontano Oriente.
La sala con la tele sta a Oriente.
La peroni, la partita, le bestemmie che si sono fumati ciccando per terra stanno a Oriente.
La carovana procede lungo il corridoio, masticando l’ultima patatina cric e croc, con un passo stracco, ma proprio stracco stracco, che pare strappato coi denti. Era l’ultimo? Miracolo!
Ne fanno un altro.
Un altro.
Un altro.
La ciabatta si abbatte al suolo con uno schiocco imperioso e uno strascico regale.
Che risorse che c’hanno, gli uomini.
Tutto il pomeriggio a dorso di divano, a stappare birrette e sgasare gassose, a dirsi “finocchione” e “puttaniere” con sdoppiamenti di personalità da croce verde.
Ma loro sono uomini.
Con la patente.
Guarda con che raffinata nonchalance l’angolo della camicia si è divincolato dalla costrizione della cinta, nota la sopraffina asimmetria di quel ciuffetto di capelli leccato contro la nuca tra le canne al vento del riporto poetico, osserva la patta spalancata sul boxer 50% acrilico, che s’è già riempito di pallette.
Donna, senza questi uomini tu non saresti niente.
Quindi sbrigati a scolare quella pasta (porta 5 minuti di cottura? Mamma la faceva in due e mezzo!), mettili di coccio questi piatti (mamma apparecchiava di coccio anche quand’eravamo tutti), smettila con le telenovele (mamma andava a Rosario) e falli mangiare.
Le loro pendule gibbosità sono state asciugate dalla privazione (pizzette e rustici li chiami “merenda”?): il minimo che tu possa fare per ripagarli della distrazione che ti dedicano è restituirli al lunedì coi tamburi tirati e una bustina di alcaseltzer nel taschino.

lunedì 26 gennaio 2009

Saluti da Venezia


E lui se n’è andato. Anche lui. Se n’è andato.
Senza battere ciglio, né la porta. Magari l’avesse fatto! Ci sarebbe ancora un’illusione da guardar sfiorire, duri quanto duri, nel vaso buono del salotto. Qualcosa a cui appendere il tempo.
Dai tuoi? Meglio di no. Bene gli vuoi bene, ma non basta: nella tua stanza c’hanno messo le canne da pesca di papà e i pomeriggi vuoti di mamma. La sua tavola da stiro con la fodera a limoni marinata all’appretto.
Da Carola no. Cioè sì, per carità, Carola è Carola e c’è sempre, ci sarà sempre, puoi contarci. Da vent’anni lo stesso parrucchiere, appuntamento per due, taglio e piega. Più qualche meches che tu non hai mai voluto provare. “Ma ti ringiovanisce”. Niente meches al tavolo 5.
Quale vita andare ad abitare adesso che nella tua c’è un vuoto tale che si sente l’eco dei borborigmi?
Boh.
Comunque lui non torna. S’è preso anche il filo interdentale e la sveglia dei Ramones. Le conchiglie a gondola, saluti da Venezia, l’ha lasciate ad invecchiarti. Nessun uomo vorrà fare l’amore con te dopo aver visto le conchiglie a gondola nell’ingresso.
A chi la dai la tua carne giovane, indurita dall’acquagym e dalle riunioni di condominio, a chi il tuo intimo in coordinato rosa antico, verde acqua, rosso cardinale, giallo croco?
Perché finché va bene va bene, e tradirsi non sembra un gran tradimento, e svendersi non sembra una gran remissione perché in fondo ce l’hai comunque un tuo guadagno, e si sa che per avere bisogna dare.
Ma dare hai dato, avuto poco, se sono le quattro e mezza del mattino e hai già finito di stirare.
E hai stirato anche le mutande.
Lui non ha nemmeno un’altra alla quale dare la colpa di tutto, delle serate afasiche sul puf, dei baci senza lingua, del maglioncino in lana per Natale. Tu sei allergica alla lana.
Se n’è andato, punto. È così.
Sul divano ti tocchi il femore sporgente e ti riaccendi una sigaretta che non ha il sapore che ricordavi. Niente ha il sapore che ricordavi. Per esempio la tua ultima solitudine: era piena di poster di Luke Perry. Il tuo ultimo orgasmo di eccitanti sensi di colpa.
Indice e pollice arrotolano una ciocca di capelli all’henné. Appena si fa giorno devi chiamare Carola, per fissare dal parrucchiere.
Taglio, piega e meches per due.

sabato 24 gennaio 2009

Corto


Corto si chiama Renato. Renato Picchio, come il nonno, il padre di suo padre. Buonanima.
Morto di crepacuore ma in grazia di Dio, per quel figlio a cui non bastava il lucido magico per rifarle nuove, quand’era la festa, le scarpacce viziate dal piede, che aveva detto “mamma, me ne vado in Sudamerica” proprio mentre anche lei se ne andava, e più lontano.
Di modo che tra emigrati, morti prima e morti dopo quella casetta piccola piccola, con la finestra del bagnetto piccola piccola, con la cucina piccola piccola che s’affacciava su quei tralci piccoli piccoli di un’uva che mai nessuno l’aveva vista, s’era fatta grande, troppo grande, grande e vuota.
E Picchio era tornato per restare, con quel bambino nero a tutte l’ore, tutti i giorni, pure d’inverno, pure di domenica. Perciò Renato non ce lo volevano chiamare, nemmeno il padre, nemmeno la madre, la grassa e dura mamma, nera nera, che quella tenerezza della carne la chiamava Gordo.
Corto, appunto.
“Sudamerica … sì, ma dove?”
Importa? Con sudamericano avevi detto tutto: papà emigrante e mamma puttana.
Ma Corto non sapeva niente.
Sapeva seguire le lucertole assolate, guardarle e giurare che anche loro l’avevano guardato e che invece di scappare erano rimaste ferme perché lui non era come gli altri.
A lui i sassi gli venivano incontro, gli rotolavano tra i piedi per farsi cogliere e portare via, perché lì dove stavano anche gli altri non ci volevano più stare e guardavano Corto senza occhi, ma con uno sguardo … che lui non gli sapeva mai dire di no. Se li portava in tasca fino a quando capiva da qualcosa che volevano scendere, che quello era il posto, e che lo ringraziavano così tanto che si sarebbero sempre ricordati di lui. Qualcuno non voleva mai scendere, e lui se lo portava pure a casa, pure nel letto, pure a fare il bagno, e lo guardava trattenere il fiato per tutto il tempo sul fondo di ceramica della vasca.
Solo un amico lo poteva fare di stare tutto il tempo ad aspettarti con quell’aria tranquilla, rilassata, di uno che non ti mette fretta.
Quando mamma strillava di uscire Corto non usciva quasi mai. Bisognava che venisse a prenderlo e che se lo mettesse sulle spalle colossali, tutto fradicio e contento com’era di farle scivolare nel grembiule il suo sasso, quello femmina che con lui non si divertiva a giocare e che con mamma sarebbe stato bene.
Mamma teneva tutti i sassi femmina nel primo cassetto del comò, in mezzo alle pezze colorate che aveva portato dall’America. Corto andava a guardare e li trovava sempre a fare il bucato. In mezzo a tutti quei colori.
Il bucato.
Erano proprio sassi femmine.

martedì 20 gennaio 2009

I muri


Mai fatto caso a quanto fossero sottili. Anche quelli dei villini a schiera. Anche i miei.
Stasera, a meno di una settimana dai trent’anni, l’ho scoperto.
Se la gente non fosse imperfetta non so davvero cosa vivrebbe a fare.
Chiudendomi la porta di casa alle spalle, mentre mamma m’urlava dietro non so cosa, l’ho scoperto. Un attimo c’era, l’attimo dopo non c’era più. Cioè sì, c’era, ma solo perché sapevo che ci doveva essere e ne ho saputo trovare la striscia sottilissima di bava.
La sua voce, dico.
Ho sbattuto la porta apposta, per protestare contro quella voce. Che mi criticava e mi ammoniva e mi ricordava ancora una volta che non sarò mai grande. Mai quanto lei. Resterà sempre la tartaruga che la mia lepragine non può raggiungere.
Mamma.
Che è infelice, e quanto, ed è anche colpa mia. Colpa? Mia poi? È lei che ha scelto di dedicare la sua vita solo ad amarmi, che ha fatto della sua esistenza un verbo transitivo senza complemento espresso. Un assoluto. Amore.
Voleva solo che fossi felice. Ma che lo sia senza di lei la fa impazzire. Perché soffre un dolore giusto, naturale, inappellabile, sperato.
Qualcuno ha detto che bisogna starci attenti ai desideri. Se poi s’avverano sono cazzi.
Io l’ho guardata per anni volere e disvolere la stessa cosa: alzarsi presto, farmi le merende e pagarmi i pastelli Giotto solo perché crescessi. Mettersi distesa sul mio letto, cantarmi le canzoni e farmi il bagno solo perché restassi la bambina rosa e promettente nella bolla di quell’attimo.
Io l’ho sempre saputo quanto e come la facevo soffrire. Ero io, era il modo in cui ero fatta, la mia normalità a sconvolgerla.
Povera mamma: così docile e nervosa, così dodecafonica.
Per essere equa avrei dovuto darle la mia vita. Saremmo state pari.
Ma per essere giusta dovevo vivere per me, solo per me. Perché è tutta qui la differenza: lei sta nella mia vita, io SONO la sua.
Mamma.
Domani sono sette anni che sei morta.

domenica 18 gennaio 2009

La conta


“ma dove sei stata? Non lo vedi che ore sono? Se lo sa tua nonna … “
“che devo sapere?”
“niente mamma, i soliti ritardi, la solita Miriam”
“e dove sei stata?”
“io lo so, io l’ho vista!”
“zitto tu!”
“dove l’hai vista?”
“all’alimentari”
“fino alle otto all’alimentari? A fare che?”
“ … “
“allora?”
E per chi in quella penombra non aveva potuto o saputo leggere i colori che andavano e venivano su quelle guance era finita lì. Perché il forno aveva di nuovo fatto bruciare tutto e i vapori neri della carne carbonizzata s’erano rovesciati fuori al galoppo, stordendo e costringendo tutti a dire la loro.
La famiglia.
Quella sera il poco appetito di Miriam, con la magra che c'era, era stato segretamente benedetto dagli altri. Che, come succede a chi si vede capitare tra capo e collo una fortuna insperata, si erano rifiutati di chiedersi perché.
“perché?”
“che domanda da femmina! Vuoi restare o no?”
“ma se ci scopre tua madre … “
“mia madre è al negozio che non si può muovere: papà è ubriaco”
“e se le serve qualcosa?”
“mi chiama”
“sì, ma io perché dovrei restare?”
“infatti non DEVI ... se vuoi … senti Miriam, io resto, tu fa quello che ti pare”
“ … ok. Che è che devo vedere?”
“guarda”
E da sotto la magliettina beige ereditata dal cugino era spuntato un cuore. Vedersi non si vedeva ma il Falchetto lo sentiva talmente contrarsi e spingere e scivolargli nella pancia che non ci poteva credere che invece lei …
“non vedo niente”
“ma come no, queste, guarda”
Trattenendo il fiato erano venute tutte a galla. Qualcuna sembrava che si vergognasse o che rabbrividisse di quell’aria oscura di scantinato e proibizione. Qualcuna invece ci stava così stretta e fiera nella pelle tirata che sembrava una quarantacinquenne alla prima uscita dopo il divorzio.
“le costole?! Mi dovevi far vedere le COSTOLE?!”
“perché? Non ti piacciono le costole?”
“sì ma non credo che nascondano un mistero!”
“lo dici tu … “
“sentiamo”
“quante ne hai?”
“non lo so”
“contatele. Basta che respiri a fondo e trattieni l’aria”
E in un istante s’era fatta donna. Con l’elastico verde tra i capelli sporchi, con i calzini bianchi risvoltati, con le gomme all’amarena in una tasca, Miriam non era più una bambina. Nemmeno lo sapeva che il Falchetto non aspettava affatto che finisse, nemmeno s’era accorta che la faccia gli si era fatta più lunga e rossa. I seni gonfi avevano riempito all’improvviso tutta la penombra.
“dodici”
“eh?”
“sono dodici. Per parte”
“non è possibile”
“perché?”
“perché io pure ce n’ho dodici per parte”
“e allora?”
“allora tu ce ne devi avere una in più”
“no”
“sì. L’ha detto il prete”
“e che ne sa il prete?”
“gliel’ha detto Dio”
“oddio … Però mi sembrano dodici”
“ricontale!”
“ricontale tu!”
“le mie?”
“no, le mie”
Da dietro le spalle Nicola la guardava. Sopra l’elastico dei pantaloni a righe iniziava subito la pelle, asciutta e bruna.
“aspetta che respiro. Vai”
La vita para, da ragazzina, magra.
Una.
Due.
Tre.
Quattro.
Cinque.
Sei.
Sette.
Otto.
Le coppe delle mani improvvisamente piene. Mani di ragazzino. Ma piene. Di un peso troppo leggero per quella massa.
Di quella che era la prima carne della sua vita. Che avrebbe ricordato sempre. Profumata di terriccio e resina. Incredibilmente immobile e dritta, in punta di piedi sui suoi palmi già caldi di un sudore che si asciugava sul cotone del reggiseno, man mano che i minuti passavano senza che nessuno si muovesse.

giovedì 15 gennaio 2009

C'era una volta un re


“Mi racconti una storia?”
“quale vuoi?”
“quale ti pare”
“quand’ero più piccola di te vivevo a Salonicco”
“ma non vivevi a Genova?”
“Miriam”
“eh?”
“la vuoi una storia?”
“sì”
“allora zitta”
“…”
“quand’ero più piccola di te vivevo a Salonicco, in una zona povera ma non lontana dal palazzo del re. Andavamo con le amiche a visitare il suo quartiere, che a tutte le ore del giorno era pieno di gente che pareva un formicaio. Alla mattina presto giravano i mercanti a dorso di mulo, coi rotoli di stoffa assicurati alle bestie o nei carretti, a ora di pranzo strillavano i banchetti pieni di dolci al miele e frittelle di succo di pesce, al primo pomeriggio i ragazzini giocavano nei patii e verso sera uscivano di scuola discepoli e maestri, per andare a cenare e passare la notte insieme in qualche casa”
“e le donne?”
“quali donne?”
“le donne! Dove stavano tutto il giorno?”
“dove dovevano stare? A casa”
“e tu perché stavi in giro?”
“perché ero ancora una bambina, e mia madre mandava piuttosto me che le mie sorelle grandi a fare commissioni. E nessuno faceva troppo caso a dove stessi”
“tua madre e le tue sorelle dovevano stare tutto il giorno a casa?”
“no, perché erano sfortunate e quindi dovevano andare a lavarsi i panni da sole alla fontana, e caricare i secchi d’acqua e così via. Ma le donne fortunate sì, stavano tutto il giorno dentro casa”
“a fare che?”
“se erano proprio fortunate, a fare niente”
“ah”
“vedi Miriam, per una donna la casa, la famiglia, i figli e il proprio marito sono tutto. E quando può godere tranquilla di questi beni, allora è una donna fortunata. Tu inizi a farti grandicella, e tra qualche anno ti accorgerai che è proprio così, e ti ricorderai di quello che diceva la tua povera nonna”
“e come si fa a diventare fortunate?”
“bisogna essere oneste, prudenti e modeste. E poi ci vuole anche una buona stella”
“e quelle sfortunate? Che fanno?”
“dipende. Se gl’è mancata solo la buona stella se la cavano comunque, e non sprecano i loro giorni. Se invece è tutto il resto che non c’è stato beh, a Salonicco si facevano etere”
“etere?”
“puttane”
“puttane?!”
“conserva la tua virtù Miriam e guarda alla vita di queste donne. Lo sai dove le si vedeva? Alla sera, all’imbrunire, uscivano furtive come ladri dalle loro case zuppe di umori, per accodarsi alle compagnie di maestri e allievi”
“per fare che?”
“ai banchetti offrivano sfacciatamente corpo e voce agli uomini”
“voce?”
“cantavano. E suonavano. E sedevano a tavola con gli uomini, e facevano quello che vedevano fare a loro, e fino all’alba li stavano a sentire parlare di scienza, Dio e poesia. Si facevano insegnare a leggere e scrivere, imparavano e recitavano versi, diventavano dotte. Concedevano tutto a chiunque”
“…”
“conserva la tua virtù Miriam”

mercoledì 14 gennaio 2009

Certe curve


Ma dove va? Dove va? Dove pensa di andare?
Conciata come una trapezista di mezza età, unta e bisunta di fondotinta e crema-corpo al cocco, mi farebbe pena o ridere se non fosse mia figlia.
Mia figlia poi, SUA figlia. Permalosa, litigiosa e bella come lui.
Adesso aspetta sul divano. Che mi passi immagino. Che gli dica “Monica, amore, vacci alla festa del tuo fidanzatino a farti succhiare quelle assurde labbra fucsia. A che ora viene a prenderti mamma?”
La luce blu del televisore le sfarfalla addosso, e basta che si faccia più chiara per vedere di quante e quali smozzicature è fatta la linea spessa dell’eyeliner.
Lei non crede alla sua età, solo al suo corpo. Che, sfacciato, ha approfittato del menarca per darle ogni giorno nuove ansie e soddisfazioni.
E questo è il risultato: tinta e ridicola come nell’ultima mascherata di carnevale. Solo che oggi non si lascerebbe spogliare e lavare come allora, non si lascerebbe addormentare come allora. Eppure ha sonno. Dal riflesso del vetro del termo camino vedo le palpebre piegarsi sotto il peso dell’ombretto a strati. Ormai è tardi, troppo tardi: sa che suo padre non arriverà in tempo per liberarla dal drago.
Eppure non si spoglia, e cerca ogni modo per dispiacermi.
Lascio il rubinetto della cucina aperto, per scivolare lungo il corridoio e guardarla quando si crede non vista. È bella. È già bella. Non come una bella bambina, ma come la donna che non ha ancora la capacità di immaginare che diventerà, la donna che racconterà ridendo le lacrime di questa sera.
I figli, a un certo punto, sono come la radio in macchina, quando guidi solo tra curve e controcurve che ostacolano la propagazione delle onde. Proprio nel mezzo di quella canzonetta che ti piace tanto cominciano a frusciare, a fischiare, e non c’è verso di farle funzionare. E tu stai lì, incerto tra provare a cercare altrove il segnale lavorando di cesello col pulsante “più e meno”, e ostinarti a restare su quella frequenza (nel caso torni a suonare, non si sa mai).
In ogni caso perdi qualcosa.
C’è pure chi c’ha il pugno magico, e con una botta ben assestata ha la meglio. Dura quello che dura, ma dà un certa impressione di controllo.
Io il pugno magico non ce l’ho avuto mai. E stasera ho scelto di illudermi che basti rifiutarsi di cambiare frequenza per risentire una canzone,la mia canzone.
Carina diventi tutti i giorni più carina ma in fondo resti sempre una bambina tu sembri fatta apposta per amar.

venerdì 9 gennaio 2009

Piazza Santi Martiri


Al martedì mattina c'è mercato.
Tra i quattro palazzoni di Piazza Santi Martiri, proprio nella pupilla di quell'occhiaccio sbarrato e fisso, alle sette si sente grattare. Per assicurare le tende parasole (parapioggia all'occorrenza)ogni banchetto raspa nel suo orto: l'asfalto vecchio s'arrende subito, e si volta e rivolta sotto il pungolo dei bastoni che sembra una gatta sotto la punta di un piede leggero.
Settimio non arriva mai per primo e mai per ultimo: cosa, se ci si pensa, estremamente sorprendente e difficile.
Terzo di quattro figli ha nel nome un piolo marcio: chi crede di trovarci appoggio sale pesante, e nove su dieci cade. Settimio, pronto allo scatto, afferra il braccio e tiene. E trattiene. Tutto il tempo necessario alla sua storia.
"Ma che sette fratelli, siamo quattro. Quattro maschi rognosi e zaccherosi"
"Ah, no, perché credevo ..."
"Eh, tutti credono. Mica che c'hai torto! Io pure se non conoscessi il dramma ... "
"Il dramma? Quale dramma?"
Preso.
Adesso non c'era che da stringere e tirare, inarcando schiena e sopracciglia.
Settimio era un settimino stentato, e un attimo dopo averlo saputo si vedevano diversamente quelle spalle strette strette, quel torace ridicolo, quell'aria da fantino disarcionato.
Raccontava della sua povera madre caduta dal letto in mezzo ai dolori e alle proprie acque che veniva voglia di prendere uno straccio e passarlo, del padre andato lontano lontano per campare la famiglia, della mammana tirchia che per tirarlo fuori aveva voluto lo scialle delle nozze, quello stampato a fiori, perché non c'era altro per pagare.
Quanti balli rubati a signorine ingenue e pietose signore nelle fiere d'estate, quando qualcuno che sapesse fare un po' di rumba o una romanza non mancava, e non mancava chi volesse stare ad ascoltare, a riascoltare ancora quella storia.
Ispida, corta e dura, come le sue due vecchie guance vuote.

El barrio



Nel cuore ognuno ha il suo.
Grazie Riccardo.

mercoledì 7 gennaio 2009

Ida


“L’ho sentita io!”
“E che hai sentito?”
“Ridere, ridere … e certi versi come … come … come miagolare”
“Non ci credo! Il marito è ancora caldo …”
“Te lo giuro su quest’immagine benedetta che mi regalò la povera zia Lorena prima di … e ce l’ho sempre sopra il cuore. Sulla buonanima di zia Lorena: quella c’ha l’amico. O gli amici”
“Pure?!”
“Pure. Ma per chi mi prendi: Ida c’ha una parola sola, e nessuno l’ha smentita mai in cinquant’anni che stò al mondo”
“Eppure a vederla … certo è bella, è conturbante, è pure civettuola con quelle vestine colorate, ma sembra tanto onesta, tanto perbene”
“E io mica dico che non sembra. Ah no, a sembrare sembra”
“E che ti devo dire, c’avrai ragione tu”
A Ida questo bastava. Sarà che la ragione è dei fessi, e Ida tanto furba non era. Sarà che ormai ne faceva un punto d’onore e un vezzo di portare la ragione sulla lingua, come gli uomini il fazzoletto nel taschino.
Sarà che a cinquant’anni suonati, sola al mondo come una buona intenzione, brutta e con la fama d’esser brutta a Ida poco altro restava. E passava le mattine a scopare l’ingresso, avanti e indietro, avanti e indietro, a lucidare i pomelli d’ottone del portone, destra e sinistra, destra e sinistra, a spiccare ragnatele nell’androne, su e giù, su e giù. Sempre a non più di un metro e mezzo dalla strada, sempre con un orecchio e un occhio in strada. E tutti i pomeriggi erano Messa. E tutte le serate ali di pollo.
Ma al barrio non ce n’era che la odiasse: qualcuno le tirava dietro un motto, quando passava raso raso i muri, qualcuna le strillava inviperita uscendo per scrollare la tovaglia, ma nessuno ce n’era che l’odiasse.
Nemmeno un po’ di odio tutto suo era riuscita a farsi dare Ida. Campava come campano le cose, lasciandosi spostare e malamente. Quando se ne sarebbe andata, solo allora sarebbe saltato all’occhio quell’alone più scuro sull’intonaco del barrio: lì stava appesa Ida.
C’è in ogni barrio qualcuno che non mette radici e non emigra, che c’ha un modo tutto suo di starci, né dritto né di sghembo. Qualcuno che non conta come gli altri. E gli altri sono come palazzoni, chi a più piani, chi con l’aria buona di cosa antica e chi con l’aria triste di cosa vecchia. Tutti con caldi cuori di cemento.
Ida no. Stava sola, col fiato sospeso, sui cornicioni delle vite altrui.

lunedì 5 gennaio 2009

Gelosie


Lancetta Piergiorgio di Lancetta Carlo era stato l'illustre signor nessuno del barrio.
Chi era? Da dove veniva? Che lavoro aveva fatto (perché che ora non ne facesse nessuno era chiaro a tutti)?
Mistero.
Di lui si sapeva solo che divideva l'appartamentino di via dei Campi Flegrei con lo stravecchio padre ("Lancetta Carlo signore", come lo si sentiva ripetere di quando in quando mentre annaffiava i vasi del balcone in vestaglia e cappello d'alpino) e la giovane, rosea, morbida, tiepida, cipriata Marianna.
Per il resto faceva una vita sufficientemente ritirata da scansare buona parte della lecita curiosità di un vicinato che le aveva provate tutte: domande lasciate cadere con un fare tremendamente distratto, tentati approcci all'edicola, bottoni attaccati mille volte e mille volte miseramente precipitati a terra, lunghi, estenuanti appostamenti dietro le gelosie socchiuse.
Niente.
E Lancetta non concedeva nemmeno la magra soddisfazione di mostrarsi spazientito.
"E quella?"
"Ma sarà la figlia!"
"Che figlia e figlia! Io mia figlia mica la guardo così!"
"Così come?"
"Così ... così!" E dagli a strabuzzare gli occhi e socchiudere bavosamente la bocca.
"Beato a lui!"
"Ce l'avessi io una pupa così per casa ... "
"Per forza che non esce mai"
"Io non vorrei sapere nemmeno se è notte o giorno!"
"Certo che tanta è tanta!"
"Mado' ... roba fina"
"Ma grossa dove serve"
"Eh"
"Eh"
"Miimmooo! MIIIIIMMMOOOOO! Sempre in chiacchiera, questo sai fare! Tanto agli affari tuoi c'hai chi ci pensa"
"Femmina malefica velenosa e legnosa ..."
"Come Mariannina, eh?!"
"Ancora a parlare di gonnelle? Ancora con Mariettina come si chiama? Buona l'apostola! Che servizio che gli fa a quel povero vecchio come voi! Che a settant'anni suonati deve stare appresso a quella vampira indiavolata!"
"Povero Lancetta!"
"Oremus"
"Ridete ridete, vedrete che fine che gli fa fare ... "
"Meglio un giorno da leone che cent'anni da pecora!"
"Tanto tu asino sei, rognoso e incarognito"
E così era stato.
Magari non era stata solo colpa di Mariannina (colpa poi, averci trent'anni e sentirseli caldi mica è colpa), magari la morte del padre l'aveva abbattuto più di quanto potesse sopportare, magari le gelate di quell'inverno, magari le malelingue che gli entravano in casa come spifferi ... tant'è. Lancetta Piergiorgio passò a miglior vita, lasciando una vedova inconsolabile e una casa improvvisamente vuota, talmente vuota che faceva l'eco.
Ma un'eco strano, un'eco che sembrava rispondere con note di basso a trilli di mezzosoprano.

giovedì 1 gennaio 2009

Chiamatemi Isreaele

"Mariannina fa la domenica".
L'aveva detto Israele, il figlio dell'Ebreo. Che l'aveva saputo dalla madre. Giel'aveva sentito sibilare una notte che lui dormiva, cioè origliava i genitori ad occhi chiusi.
L'Ebreo si produceva in una nota sola, bassa bassa, corta corta: "nooo" "nooo" "nooo".
Lei invece andava di virtuosisimi meglio che Paganini, con scale ascendenti vorticose e spiazzanti discese, a modulare un fraseggio che alla fine, a starci attenti, si reggeva però tutto sulla nota lunga dell'Ebreo.
"nooo"
"ma se t'ho visto io che svoltavi sotto l'archetto che finisce sotto casa sua"
"no-oo"
"ma io nonmifacciomicacoglionare eh, no no, eh no eh ..."
"nooo"
"e magari pensi che con due smancerie, due carezze, due sorrisini ... eh, caro mio, e mica qui si fa sempre domenica, mica ... mica sono Mariannina io"
"no no", stavolta meno baritonale e più sfiatato.
"hai capito Falché?"
"mica"
E Israele (che senza l'innalzamento dell'obbligo scolastico avrebbe continuato a chiamarsi Ebreo) buttava sul tavolo la sua teoria, tutto sommato logica e consequenziale:
"bei vestiti uguale: non va a servizio. Pista di borotalco dove cammina uguale: non lavora in campagna. Capelli sempre sciolti uguale: non è operaia. Mariannina fa la cuciniera"
"ma che!"
"non fate pranzo alla domenica?"
"eh"
"e allora torna"
"ma che torna! Tutti i giorni mi fanno passare a bottega e l'avessi vista una volta con la spesa fatta"
"ma se mia madre dice che Marianna e tuo padre sono come pane e pomodoro!"
"eh, dice male"
"e allora che stà a fare tutti i giorni da voi, che parla stretta stretta con tuo padre che pare chiedergli l'assoluzione?"
"mio padre darà l'assoluzione, ma per la benedizione passa il tuo ... o tua madre gli occhi per vedere i the e caffè che si prende (e con chi!) il suo di marito non li tiene?"
Il Falchetto c'aveva ragione. Se al barrio c'era una che a unzioni, aspersioni e benedicite non tremava quella era Mariannina Pagolini fu Lancetta.