venerdì 15 gennaio 2010

Spostati


Se mi chiamassi John questo sarebbe un juke box a mezzo dollaro per volta, e quello un Jack qualsiasi, uno del mio quartiere, uno cresciuto come me a calci in culo e stelle e strisce e baby, sweet e fuck you mum.
Ma chiamarsi Gianni ammazza la questione sul nascere, porge l’altra guancia per principio, non ammette l’epica che nel fine settimana.
Giacomo mi allunga un’altro camparino liscio liscio, che mi faccia scivolare senza sforzi nella notte che oggi tarda ad arrivare: me lo vedo arrivare davanti tremulo, vile, un verginello al primo appuntamento con l’esperta depravazione della mia gola scartavetrata a forza di bestemmie e olio di gomito. Fossi nel più merdosissimo pub della più merdosissima square a quest’ora me lo vedrei venire incontro a falcate, altro che, e leccarmi la lingua quant’è lunga fino al campo dei miracoli che c’ho in corpo, giù in fondo, dove ho seppellito una manciata di notti e ho ritrovato alberi di anni rampicanti che mi si sono appiccicati attorno agli occhi e alla bocca.
E che non danno frutto.
Rutto.
Il buio delle sette non ha uguali, con quel neon che comincia a riscaldarsi e si impasta di polvere e tepore del tramezzo riscaldato, l’ultimo, quello che gli operai e il loro mondo onesto hanno schifato e lasciato apposta per me: carciofini e fondo del barile.
Mi concedo l’amarcord e ordino un coctail d’annata, alla faccia di queste facce pulite che cominciano a farmisi intorno e a solleticarmi dietro le orecchie con le loro piumate code dell’occhio: vogliono qualcosa, sanno come ottenerlo, lo otterranno. Ma non ancora: voglio far alzare un po’ di mance al barista, così che possa comprare una qualche stronzata colorata alla figlia e una stecca di sigarette come si deve.
Con la punta dei camperos spolpisco lo sgabello accanto al mio: Giacomo lo chiama “quello degli ospiti” e c’ha ragione, perché tra me, lui e la marmitta delle birre c’è una coesistenza di disgusto e bisogno reciproco, un moto di repulsione e riconoscenza quando ci ritroviamo insieme che ricordano veramente una famiglia.
«Spostati»
Dicono un paio di gazzelle al mio camperos; che ovviamente non ci sta e marca lo sgabello con una strusciata di fanghiglia ancora non rappresa che aveva tenuto nella risega del tacco per simili evenienze: la gazzella sinistra si pianta proprio sulla strisciata mentre l’altra s’appoggia all’acciaio specchiante del bancone.
«Funziona il juke box?»
«Abbastanza»
«Mi fai una vodka liscia?»
«Mh»
«Ce l’hai una sigaretta?»
«Non da donna»
«Tieni. Ti pago la vodka e una sigaretta da uomo. Spicciami il resto»
Aveva un giacchetto di pelle, corto in vita, borchiato e sceso su una spalla, i capelli raschiati sulla nuca, indefinibili, la voce di un giocattolo elettronico che abbia preso acqua. Nell’acquario di quel venerdì sera nuotava con traiettorie inusuali, con pochi colpi di pinna secchi e irregolari, contro corrente, visibilmente abituata a digiunare pur di non abboccare all’esca.
«Vuoi le patatine?»
«Hai musica metal?»
«Boh, vedi»
«C’è una copertina nera stracciata, ma non si legge niente»
«Io l’ho affittato come lo vedi»
Alla nota lunga iniziale ha sollevato la testa, preparandosi a pogare, ma il ricamo di sillabe incomprensibili le ha gelato il collo, irrigidendola in una posa plastica da scudisciata: seduta sullo sgabello, schiena inarcata, testa sollevata, braccia distese a toccare il bancone.
Ogni tanto si distinguevano uomini gridare basso “chirieleison” “chirieleison” e non ricevere risposta, e affogare sotto un’onda di violini e timpani e riaffiorare più stanchi e disperati, e sempre chiedere e sempre affogare.
Se n’è andata prima della fine, senza sigaretta, e ho guardato con tenerezza paterna la strisciata del mio fango salutarmi una volta ogni due passi.
Erano quasi le due: la serata poteva cominciare.