domenica 1 marzo 2009

Patti generazionali II


L’ombra dell’imposta sul pavimento rintocca le sei.
Sei e mezza massimo.
La badante lituana esce adesso, col suo fagotto di donna sotto braccio. Che racconta mondi così remoti, così falsificati e stagionati che tutto è diventato duro e secco, limpido nella sua semplicità. O semplificazione.
L’una allaccia il mento alla manina accartocciata dell’altra: e questa trema trema trema trema, e quello oscilla oscilla oscilla oscilla. Sempre sì le dice, sempre sì.
Nei panni ai lavatoi, nei pupi fasciati, nelle strade di terriccio e piedi scalzi cammina ancora l’una, ancora l’altra.
Capire non è tutto, capirsi invece sì.
Il mattonato mi restituisce l’odore di citronella e varicchina. Davanti allo specchio del salotto mille rughe si girano a guardarmi, mille righe raccontano una storia, sempre quella.
La cucina è perfetta: ordine, pulizia, penombra.
A quest’ora si comincia a respirare e l’estate strizza al giorno il succo. Ha macerato ore e ore e ore, pestate nel mortaio dalla pendola, ore assolate anche dietro i capannelli delle imposte, dietro occhi riluttanti e chiusi, che nelle grida dei bambini in strada hanno risentito mamma chiamare a cena.
Aspetto che si raffreddi il the. Aspetto che qualcuno bussi o suoni o chiami. Aspetto.
Nel lavandino due tazzine di caffè. Me le lascia sempre. È una delicatezza, una commovente delicatezza.
È una frase scritta con le cose: “nonna non penso che non ce la fai più. Guarda: ti lascio pure le tazzine da lavare!”.
Ma sono stanca. Ho passato le ultime tre ore a correrle dietro nel vialetto posteriore di casa, quella vecchia, quella dove è stata fino alla quarta elementare. A soffiarle sui ginocchi sbucciati a furia di ostinazione.
Ha ritirato anche i panni: i fili vuoti del balcone mandano spadate di riflessi nella bocca vuota del camino.
La lascio fare.
Fatica, impegno, piccole responsabilità domestiche alle quali appendere le risate domenicali: deve crescere. Con l’ultimo spicchio di pesca in bocca comincia a sparecchiare, a far scorrere l’acqua perché venga bollente, a cantare canzonette di una volta. Lo farei io. Vorrei. Potrei.
Ma le ruberei la scoperta di quanto e quale gusto abbia un peso. Portarlo. Doverlo portare.
Due giri di cordicella, il fiocco davanti: una ragazza.
E io non ci sarò quando l’annoderà sulla schiena e frenerà sul grembiule umido la corsa di una voce che la chiami mamma.

4 commenti:

  1. come al solito la tu axenofobia anti-lituana torna costantemente a farsi capo rasato. se fossi li nei pressi mi verresti incontro priva di movente a sferrare attacco baglionetto. facinorosa:ordine, pulizia, penombra. e impeccabile. sei la ferocia di quelli alla soglia della glicemia.

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  2. troppo sdolcinatina? troppo femminuccia?
    mi pento subito, lo giuro: mi pento.

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  3. che belle le ultime due frasi ! Marina tu sei la McGiver della poesia italiana ... ti basta una parola per tirare fuori l'oro puro.

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  4. Lucio! Tu? Qui?!
    mannaggia, ad essermi accorta del tuo post t'avrei risposto prima. Per salutarti,ovvio, e per ringraziarti.
    Nessun complimento sarà mai all'altezza del tuo. McGiver ... davvero inarrivabile.

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