
Pane e tonno.
Non volevo che essere maschio. Magari uomo no, ma maschio. In quei giorni di fare, di polvere, di faccende e dignità io non avevo un posto che fosse mio.
In tutti quei filari di campagna, nei punti neri che marchiavano l’ennesima adolescenza del viso giovane, sempre giovane della terra gialla a mezzogiorno, io non c’avevo che fare.
Niente fare niente stare.
Legge delle cose, legge onesta. Le donne avevano preparato gli attrezzi, preparato il pranzo che in mezzo alla polvere si chiama colazione, preparato anche gli uomini alla fatica e all’onore della fatica.
Per loro era tempo di tornare.
Aspettare.
La donna attende di natura. Nove mesi, vent’anni, quei cinque minuti che fanno la differenza tra cedere e capitolare.
Avrei dovuto andare anch’io.
Infilarmi nell’intercapedine tra un avvenimento e l’altro, pancia in dentro e bocca aperta.
«io rimango»
«dove?»
«qui»
«qui?! A che fare?»
«a lavorare»
«tu?»
«io»
«peserai trenta chili!»
«peserò quanto Massimo, ma lui lo fate stare»
«lasciala, se vuole stare … ma devi lavorare»
Sacchi da cinquanta svuotati quasi per metà. Trenta dolcissimi chili in media. Ad ogni viaggio. Dolcissimi. La vita che avrei conquistato, rubato se serviva, che m’aspettavo anche se non mi spettava. Almeno sulla carta.
La iuta segava la carne, anche sotto i vestiti, grezza e antica come la fatica.
Era la mia marcatura, era il segno. Che ho tenuto e coccolato per giorni: fidato e fermo sulla spalla sinistra come il pappagallo di un corsaro che io viziavo di ogni attenzione.
«COLAZIONE!»
Anche per me.
Tra le foglie boccheggianti dei filari il vento ci veniva a metter fretta, e mangiavamo in piedi, appesi gli uni agli altri.
Pane e tonno è l’ultima cena. Tradire il patto.
E io ho tradito.