domenica 14 giugno 2009

Menu della casa I


Pane e tonno.
Non volevo che essere maschio. Magari uomo no, ma maschio. In quei giorni di fare, di polvere, di faccende e dignità io non avevo un posto che fosse mio.
In tutti quei filari di campagna, nei punti neri che marchiavano l’ennesima adolescenza del viso giovane, sempre giovane della terra gialla a mezzogiorno, io non c’avevo che fare.
Niente fare niente stare.
Legge delle cose, legge onesta. Le donne avevano preparato gli attrezzi, preparato il pranzo che in mezzo alla polvere si chiama colazione, preparato anche gli uomini alla fatica e all’onore della fatica.
Per loro era tempo di tornare.
Aspettare.
La donna attende di natura. Nove mesi, vent’anni, quei cinque minuti che fanno la differenza tra cedere e capitolare.
Avrei dovuto andare anch’io.
Infilarmi nell’intercapedine tra un avvenimento e l’altro, pancia in dentro e bocca aperta.
«io rimango»
«dove?»
«qui»
«qui?! A che fare?»
«a lavorare»
«tu?»
«io»
«peserai trenta chili!»
«peserò quanto Massimo, ma lui lo fate stare»
«lasciala, se vuole stare … ma devi lavorare»
Sacchi da cinquanta svuotati quasi per metà. Trenta dolcissimi chili in media. Ad ogni viaggio. Dolcissimi. La vita che avrei conquistato, rubato se serviva, che m’aspettavo anche se non mi spettava. Almeno sulla carta.
La iuta segava la carne, anche sotto i vestiti, grezza e antica come la fatica.
Era la mia marcatura, era il segno. Che ho tenuto e coccolato per giorni: fidato e fermo sulla spalla sinistra come il pappagallo di un corsaro che io viziavo di ogni attenzione.
«COLAZIONE!»
Anche per me.
Tra le foglie boccheggianti dei filari il vento ci veniva a metter fretta, e mangiavamo in piedi, appesi gli uni agli altri.
Pane e tonno è l’ultima cena. Tradire il patto.
E io ho tradito.

giovedì 4 giugno 2009

Crucci e grucce


Oggi fa più caldo, l’aria è densa di tumori, mi tira la ferita del ginocchio.
Oggi devo andare a farmi nuova, lasciare che il movimento gonfi e raccolga la mia inconsistenza come il bastone lo zucchero filato. Devo camminare molto per distrarmi, perché in mezzo alle macchine, alla gente, piangere non posso. Mi lascerò accerchiare dalle cose che non vogliono cambiare.
Devo provare a cercare la voglia tra le grucce del negozio dietro casa. Ho bisogno che la mia nudità prenda un sapore di capriccio, perché di igienica prassi sono stufa. Appassita sullo stelo dei giorni incolonnati. Così nemica di me stessa,così stanca di dovermi frequentare.
Eppure staccarmi ancora non è tempo. Devo stare.
Tra le stoffe stampate cercherò qualcosa che mi mascheri, che strusci sulle braccia come un gatto, che faccia rumore camminando.
Perché di stare sola sono stanca. Ma ancora un poco sola devo stare.
Cercherò un commesso che mi guardi nello scollo, da conquistare sollevando questi occhi stracchi, insonnoliti e gonfi come guance per fischiare. Di un brivido ho bisogno, di una grassa allusione inelegante, di un desiderio maschio in erezione a cui appendere la serie degli eventi.
In me dovrei cercare ma in me sento soltanto la frescura umida e marcia dell’ombra troppo lunga e larga e fonda, di qualcosa che nemmeno ricordavo.