mercoledì 9 dicembre 2009

La spia


M’ha adocchiata un paio di volte, cercando la polpa delle labbra incastonate tra le rughe d’espressione che i miei trent’anni m’hanno regalato nonostante non li avessi invitati alla festa.
Poi non l’ho più vista, per diverso tempo, e ho continuato ad andare, ad andare, nella beata ignoranza cui le chitarre dei Clash m’avevano ricondotta: quasi fetale.
Nell’oscurità profonda che solo certi pomeriggi invernali riescono a raggiungere il tergicristalli del passeggero m’inteneriva il cuore, così paralizzato e invidioso dell’energica ritmicità dell’altro: lo guardava come una volta, diversi inverni fa, io guardavo elasticizzarsi le gambe della Bouchet.
La notizia più notevole del notiziario delle sei è che sono le sei.
Una speaker graffiante aggiunge i secondi.
Wow.
E non ho il buonsenso di togliermi da davanti gli occhi questa sigaretta, condannata alla verginità dalla pigrizia degli dei che non hanno fulmini per me, che non ho fulminanti per lei.
La testa del sedile non vuol parlare con me, finge di dormire, guarda fuori; io sto al gioco, mi mordo le unghie e le sputo dal finestrino, mentre scivoliamo sotto la pancia di una montagna: le luci ci folgorano a intervalli regolari, gialle ed esagerate come le rose di un amante geloso.
All’improvviso me ne accorgo: lei, la spia, mi fissa, e chissà da quanto, con quell’occhio da insonne infuocato di rimprovero; non voglio abbassare lo sguardo né giocare sporco, e chiudo un occhio anch’io, quello buono. Così tutta la nebbia di questo Dicembre m’entra nell’abitacolo, riduce l’equalizzatore a un filamento bluastro che si muove a spasmi, mentre la prospettiva colloca provvidenzialmente la luce rossa del cruscotto sulla punta della mia centos e io aspiro quell’ora di morte senza avidità.
La spia m’ha tradita, com’è nella sua natura, e abbandonata in quest’area di servizio: mi sdraio nella paura dell’imprevisto, col solito ribaltabile, con l’occhio puntato verso le mille costellazioni che la nicotina ha tracciato sul tettino.
Me le leggevi tu, te lo ricordi? Col dito seguivi le orbite dei miei occhi, premendo un po’ per farmi male, guardandomi cercarti subito dopo nello sfarfallio, venendomi incontro sulla porta della labbra.
A quest’ora ti starai già chiedendo dove sia, perché tardi a tornare, com’è che non c’è niente da mangiare, che me lo sono fatta a fare il cellulare se quando serve non lo prendo mai.
Una lunga pista buia si srotola ai miei piedi come il velo di una sposa sfortunata, vuol essere calpestata dai tuoi passi, ma cadenzati al ritmo di una volta.
E certo che trovarmi mi troverai, e torneremo a casa, e parleremo un poco, e lo racconteremo, e chissà quanti inverni inverneranno prima che tu ti accorga che sono rimasta qui.

2 commenti:

  1. eccellezionale (tra eccellente e eccezionale), ero indeciso. ho scritto un mininarrativo tentando a stile mio (carente in vari punti) di usare un personaggio tipico tuo in un cubo di vapore tipico mio.

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